Bruciavano i laghi dell’ex Legnochimica di Rende fino a qualche settimana fa. Prima che il “generale inverno” spegnesse l’autocombustione che va avanti nei mesi caldi, ogni anno e da 10 anni a questa parte. È un fenomeno inquietante, uno scenario post-atomico: i liquami prendono fuoco spontaneamente. «Con l’innalzarsi delle temperature l’odore che si sprigiona dalle vasche si fa ancor più acre e pungente», lamentano gli attivisti di Crocevia, battagliera associazione che riunisce i residenti della zona. «Numerose sono state le segnalazioni di cittadini che hanno avvertito malesseri come nausea, vomito, bruciore agli occhi», spiega il presidente di Crocevia, Francesco Palummo. Ogni volta che il fenomeno si ripete, diverse famiglie sono costrette ad allontanarsi dalle proprie case. Tutto questo è documentato con certificazione medica allegata alla denuncia depositata in procura.

Loro puntano il dito su una questione, quella della bonifica, mai risolta. È una storia che va avanti da quasi 50 anni. L’area è stata più volte sequestrata. Ma nel novembre 2014 la procura della Repubblica di Cosenza subiva una vera e propria beffa. Il sostituto Giuseppe Casciaro disponeva il dissequestro, «ritenuto che, come risulta dalle informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, sull’area in sequestro sono state fattivamente avviate le opere di bonifica». Ma a quanto pare ciò non è mai avvenuto. Come in un perverso gioco del gatto col topo, subito dopo la rimozione dei sigilli la tensione si è allentata, e chi avrebbe dovuto bonificare è riuscito a sottrarsi alle proprie responsabilità. Poi il 24 novembre scorso, dopo un’estate di fuochi venefici, in seguito alle ripetute pressioni dei comitati, la procura cosentina ha disposto un nuovo sequestro di 15 pozzi ubicati in un perimetro di 650 metri dalle vasche della ex fabbrica.

Il legno torto
In località Cancello Magdaloni, alla periferia di Rende, la Legnochimica è arrivata nel lontano 1969 da Mondovì, capoluogo delle Langhe piemontesi. Un altro caso di impresa del nord scesa al sud per privatizzare i profitti, socializzare danni ambientali e perdite, mungere la vacca grassa dei fondi europei. Si estendeva lungo sette infiniti ettari ed era specializzata nella lavorazione del legno per l’estrazione del tannino per uso conciario e per la produzione di pannelli in fibra di legno. La materia prima utilizzata per l’estrazione del tannino era costituita da legno di castagno. Per la produzione dei pannelli venivano impiegati legni bianchi e castagno detannizzato. Il processo di lavorazione produceva tannino e residui fibrosi di legno che, al termine delle fasi di lavorazione, venivano accumulati nel piazzale antistante i capannoni di proprietà della Legnochimica, siti in contrada Lecco.

L’intero processo era sostenuto dall’impiego di una matrice acquosa per la cottura delle fibre che al termine delle fasi veniva scaricata in bacini artificiali per la decantazione delle fibre vergini per poi essere riciclata in testa alla linea. I residui di lavorazione, i cosiddetti black liquors, erano quindi sversati sul terreno, all’interno di questi laghi, usati per la decantazione, ma in spregio alle più elementari norme di isolamento. La mancata impermeabilizzazione di questi bacini ha cagionato l’inquinamento perenne delle falde acquifere. Anche la produzione di pannelli in fibra di legno ha deteriorato l’ecosistema. Consisteva nella cottura a vapore del castagno detannizzato e del legno bianco per ottenere una massa fibrosa che, sottoposta a pressatura e cottura, era poi trasformata in pannelli. Pure questo processo era assistito da acqua che veniva eliminata durante la fase di pressatura e in seguito convogliata nei laghi artificiali per poi essere immessa in circolo in testa alla linea di produzione. Ma agli inizi degli Ottanta la crisi cominciava a mordere.

Periodicamente vennero arrestate alcune lavorazioni e l’azienda iniziò a ricorrere alla cassa integrazione. Nel 1992 veniva dismessa la produzione della prima linea relativa alla produzione di pannelli e nel 2000 con un contributo pubblico milionario Legnochimica realizzava una centrale a biomasse che prevedeva l’utilizzo degli scarti legnosi. Il tutto senza uno straccio di bonifica, prevista dalla legge 471/99, per la rimanente parte del mega bacino. La centrale a biomasse ebbe breve vita. Nel 2001 è ceduta alla società Ecosesto del gruppo Falk; l’anno seguente gli impianti passano alla Ledorex Sud Srl che varia l’attività produttiva e vende parte del terreno alla CalabriaMaceri (gruppo Pellegrino) di Rende, che vi realizza un impianto di selezione rifiuti. Le operazioni di cessione dell’area portano nelle casse della Legnochimica ben 40 milioni. Nel 2003 l’azienda chiude i battenti e nel 2006, con verbale del 5 aprile, l’assemblea dei soci decide di porre la società in liquidazione. Legnochimica lascia in eredità otto laghi artificiali e un disastro ambientale senza precedenti a queste latitudini. Attualmente i laghi sono tre, gli altri sono stati nel tempo interrati. Senza alcuna procedura di bonifica.

I laghi di gas
I geologi che hanno effettuato i sondaggi dicono che a pochi metri di profondità hanno trovato una rete di tubi metallici anomali. Non si tratta di scarichi fognari. È chiaro che servivano a smaltire sostanze nocive. A pochi metri scorre il fiume Crati che dopo una manciata di chilometri sfocia nel mar Jonio. Inimmaginabile il conseguente impatto sull’ecosistema. Già in un precedente esposto Crocevia, insieme al comitato Ro.Mo.Re, protagonista nei Novanta della campagna vittoriosa per la chiusura di un inceneritore attivo nella stessa zona, chiedevano in base a quali criteri il settore Ambiente dell’amministrazione provinciale avesse autorizzato, nel 1999 e nel 2004, lo scarico delle acque reflue industriali nel fiume. Gli ambientalisti ponevano anche un altro quesito: com’è possibile che la regione abbia deliberatamente concesso che in un’area così inquinata sorgessero nuovi insediamenti produttivi? Domande alle quali le autorità competenti hanno risposto col consueto balbettio che s’impone in questi casi.

Eppure, oltre a sequestrare e dissequestrare più volte l’area, negli ultimi anni la procura ha ipotizzato i reati di inquinamento ambientale e omessa bonifica a carico dei responsabili dell’azienda. Nominato consulente dalla stessa procura, nel 2010 il professor Gino Crisci, attuale rettore dell’università della Calabria, nella sua relazione tecnica era stato chiarissimo. Rilevò il grave inquinamento delle falde acquifere sottostanti, contaminate da metalli pesanti quali ferro, manganese, piombo, cobalto, alluminio, arsenico, cromo e nichel. L’esperto ribadiva che «il processo di contaminazione (…) durerà fino a quando non sarà bonificata l’intera area con l’eliminazione dei bacini». Precisava inoltre che in assenza di bonifica il livello di inquinamento sarebbe andato aumentando col tempo.

Dal maggio 2008 sono state convocate ben 12 conferenze dei servizi, eppure della bonifica si sono perse le tracce. In occasione dell’ultima riunione, l’Arpacal ha dichiarato che è stata superata 5 o 6 volte la soglia di inquinamento atmosferico oltre la quale possono verificarsi gravi danni alla salute umana. Ma quei laghetti continuano a fumare. E decine di ettari di terreno si trasformano in un paesaggio dantesco.