Ogni tentativo di ridurre l’altro all’«identico» a sé è destinato a fallire. Come è sempre stato, l’estraneo è la precondizione della diversità culturale.
La globalizzazione ha messo a punto le seguenti tre strategie per la riduzione dell’alterità: egocentrismo, logocentrismo e etnocentrismo.
I processi che contribuiscono alla costituzione della soggettività moderna e alla genesi della centralità dell’ego sono stati indagati da una grande varietà di prospettive. Le tecnologie del sé promuovono lo sviluppo di soggetti individuali. Molte di queste strategie sono connesse all’idea di un sé auto-sufficiente, che si ritiene conduca autonomamente la sua vita e debba sviluppare da sé la sua biografia. Gli effetti collaterali, non preventivati, di una soggettività auto-sufficiente di questo tipo sono tuttavia innumerevoli. I processi di auto-determinazione spesso richiedono uno sforzo eccessivo da parte degli individui; in qualche caso finiscono per impedire la stessa auto-determinazione cui mirano, e sfuma anche solo la speranza di un’azione autonoma. Da un lato, l’egocentrismo è il fondamento della soggettività moderna, ed è ciò che consente al soggetto individuale di sopravvivere, di esercitare il proprio dominio e capacità di manipolazione. Dall’altro lato, l’egocentrismo preclude ogni forma di differenza e contrae la diversità. I tentativi del soggetto individuale di ridurre l’altro ai propri scopi, di assoggettarlo ai propri intenti e di renderlo una cosa a propria disposizione sono generalmente efficaci – e tuttavia, al tempo stesso, non è raro che si risolvano in fallimento. Questa consapevolezza schiude nuove prospettive per la gestione della differenza e dell’alterità in quanto campo inedito del sapere e della ricerca.

La razionalità superiore

Una delle conseguenze del logocentrismo è invece la tendenza a percepire l’altro esclusivamente attraverso il prisma dei criteri derivati dalla razionalità europea. Accettiamo soltanto ciò che è in accordo con le leggi della ragione; tutto il resto è escluso. Chi parteggia per la ragione ha ragione, anche se questa ragione è riduzionista e funzionale. Perciò, i genitori hanno generalmente ragione di fronte ai loro bambini, le genti civilizzate di fronte ai cosiddetti primitivi, i sani di fronte ai malati e così via. Chiunque possieda la facoltà di ragione è superiore a chi risulta dotato di forme inferiori di azione razionale. Maggiore è la difformità del linguaggio e della ragione altrui dalla norma generale, maggiore è la difficoltà di approcciare l’altro e di comprenderlo. Nietzsche, Freud, Adorno e molti altri hanno criticato quest’auto-sufficienza della ragione e messo in luce come la vita umana sia solo parzialmente accessibile alla ragione.

Nel corso della storia, l’etnocentrismo ha distrutto un gran numero di espressioni di differenza ed alterità, per sempre. I processi che hanno condotto alla distruzione delle culture straniere sono stati analizzati moltissime volte. Tra gli esempi più sanguinosi c’è senz’altro la colonizzazione dell’America centrale e meridionale nel nome di Cristo e dei re cristiani. La conquista del Sud America ha significato la soppressione delle culture locali. Valori indigeni, saperi e pratiche cultuali vennero sostituiti con forme e contenuti della cultura europea. Tutto ciò che era straniero, tutto ciò che era differente venne sradicato. I nativi non erano in grado di capire quanto gli Spagnoli fossero insidiosi. Fecero in prima persona esperienza di quanto la cordialità degli spagnoli fosse altro rispetto a quel che pretendeva di essere.

Gli spagnoli fecero promesse, ad esempio, non per mantenerle, bensì per ingannare e sviare i nativi. Ogni loro azione mirava a obiettivi diversi rispetto a quelli che fingeva di perseguire. Gli interessi della corona e della missione cristiana, da un lato, e l’inferiorità dei popoli indigeni, dall’altro, legittimavano la condotta coloniale. Motivi economici, inoltre, incoraggiavano la distruzione di qualsiasi forma altra di vedere il mondo.

Oblio della diversità

Egocentrismo, logocentrismo ed etnocentrismo sono intimamente connessi l’uno all’altro, e in quanto strategie per la trasformazione dell’altro si rinforzano mutualmente. Il loro obiettivo condiviso consiste nel distruggere l’alterità e sostituirla con qualcosa a cui siamo abituati. La conseguenza è l’oblio della diversità culturale. L’unica possibilità per sopravvivere fu, per i nativi, accettare e adottare la cultura dei vincitori. Una tragedia ancora maggiore riguarda quei casi nei quali all’assoggettamento dei nativi seguì il completo annientamento delle culture locali e regionali.

Perché la gente possa imparare a prestare attenzione e a essere sensibile all’importanza della diversità culturale, occorre che faccia esperienza dell’alterità in prima persona. Questa esperienza mette la gente in una posizione tale da essere in grado di relazionarsi con l’estraneità e la differenza, e sviluppare un interesse per il non-identico. Gli individui non sono entità autonome e auto-sufficienti: consistono, piuttosto, di un gran numero di elementi contraddittori e frammentari. Rimbaud ha coniato un’espressione ad hoc per quest’esperienza, più valida che mai ancora oggi: «me stesso è qualcun altro». L’osservazione di Freud secondo cui l’Io non è padrone in casa propria va nella medesima direzione. Integrare questi elementi dell’individualità soggettiva esclusi dall’immagine di sé che ciascuno si produce internamente è una precondizione per percepire e rispettare l’alterità nel mondo esterno. Solo chi è in grado di riconoscere l’alterità dentro di sé può riconoscere anche l’alterità fuori di sé, e imparare a relazionarvisi. Se siamo in grado di percepire l’elemento altro già all’interno della nostra cultura, si svilupperà in noi anche un interesse per gli aspetti estranei delle culture diverse dalla nostra e diventerà gradualmente possibile attribuire a esse valore. A tal fine, occorre promuovere la capacità di fare dell’altro il punto di partenza del nostro pensiero, cioè imparare a vedere noi stessi attraverso gli occhi degli altri, imparare a pensare eterologicamente.

Una prospettiva inter- e trans-culturale è essenziale, oggi più che mai, perché si possano persuadere gli individui ad apprezzare la diversità culturale e a riconoscere l’importanza della difesa e promozione del patrimonio culturale immateriale. Oggi, molte persone non appartengono più a una sola cultura, ma partecipano di un gran numero di tradizioni culturali. Un’educazione interculturale o trans-culturale è un utile strumento per aiutare queste persone a confrontarsi con le differenze culturali che trovano già in se stesse, nel loro immediato circondario e nella relazione con gli altri. Non è possibile pensare all’identità senza alterità; l’educazione interculturale implica, perciò, una connessione relazionale in grado di mediare tra un sé irriducibilmente frattalico e le molte forme d’alterità. Gli ibridi culturali stanno diventando sempre più importanti. Se la comprensione degli altri è condizionata alla comprensione di sé e viceversa, allora il processo di educazione interculturale è anche un processo di conoscenza del sé, di educazione del sé. Se efficace, l’educazione inter-culturale finirà per confermare l’intuizione fondamentale per cui è impossibile una «com-prensione» totale dell’altro.

L’impoverimento del sé

In un’epoca di disincanto del mondo, in cui assistiamo alla progressiva perdita di diversità culturale, sussiste il rischio che, in tutto il mondo, gli individui finiscano per imbattersi esclusivamente in se stessi e nelle loro proprie produzioni, e che questa mancanza di alterità riduca drammaticamente la ricchezza dell’esperienza di sé e del mondo. Se la contrazione della diversità culturale minaccia la ricchezza della vita umana, allora promuovere la diversità culturale dev’essere una preoccupazione cruciale per la formazione degli individui.

Si badi che l’educazione culturale e interculturale, rispettivamente, non vanno ridotte alla mera abilità di trattare con le minoranze. L’educazione oggi, nel contesto globalizzato della nostra società, è ovunque un compito interculturale; nel quadro di un’educazione interculturale, la capacità di confrontarsi e venire a patti con le culture straniere, con l’alterità presente all’interno della propria cultura e con quella insita in noi stessi è di centrale importanza.

L’antropologo dell’uomo globale

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Christoph Wulf è un antropologo tedesco che ha concentrato la sua produzione teorica sull’educazione, dunque sui meccanismi, i riti e le istituzioni preposte alla trasmissione del sapere. Nato a Berlino, si è laureato alla Frei Universitat, ateneo dove è tornato per insegnare antropologia e educazione. Attualmente è anche direttore dell’Interdisciplinary Center for Historical Anthropology. Wulf ha promosso anche la formazione e lo sviluppo di gruppi di ricerca sulla «educazione alla pace». Da oltre dieci anni ha concentrato le sue analisi sulla formazione dell’«uomo globale», tema attorno al quale ha dedicato l’unico libro tradotto in taliano «Antropologia dell’uomo globale» (Bollati Boringhieri)

INCONTRI  Dal debito al patrimonio genetico

Per i «prigionieri del presente» è difficile immaginare un futuro da vivere. E dunque anche una eredità culturale, sociale da trasmettere. Sono alcuni anni, però, che gli organizzatori del Festival della filosofia di Modena, Carpi e Sassuoli invitano filosofi, economisti, sociologi e scienziati ad immaginare come rompere la gabbia del presente. Questo significa delineare un futuro (sia nella sua variante utopica che distopica) da immaginare, a partire tuttavia da quel presente che si vuol superare. Quest’anno la parola chiave è «ereditare», lemma usato per sondare il terreno della trasmissione culturale (il rapporto tra tendenze all’omologazione immanenti, per gli organizzatori della cosiddetta globalizzazione, e alterità delle diversità), dei rapporti tra le generazioni, del debito (attorno al quale si è dispiegata la retorica delle politiche dell’austerità), dell’ereditarietà genetica (terreno che investe campi delicati come la salvaguardia della privacy e la trasformazione del «biologico» – genoma umano ma non solo – in settore economico). È dunque la gabbia del presente che è interrogata, criticata, passata al setaccio di una griglia interdisciplinare che il Festival della filosofia ha ormai scelto come condizione necessaria per organizzare le lectio magistralis, i workshop, le mostre e le performance artistiche che per 3 giorni trasformeranno le tre città in uno spazio pubblico di discussione. Molti i relatori chiamati a discutere di «eredità». Tra gli italiani, Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Stefano Rodotà, Federico Rampini, Carlo Sini, Gustavo Zagrebelsky, Remo Bodei, Simona Forti. Tra gli ospiti francese, oltre a Christoph Wulf, del quale pubblichiamo un brano della sua lunga relazione, vanno segnalate alcune presenze costanti – Jean-Luc Nancy, Marc Augé, Zygmunt Bauman – e «nuovi ingressi», come Richard Sennett e Vandana Shiva. Il programa completo del Festival, che ha preso il via ieri, può essere consultato nel sito: www.festivalfilosofia.it.