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La lettura di Video Game Diaries di Veronica La Peccerella (Ultra/Lit Edizioni, euro 12,90) non approfondisce inattese tematiche relative ai videogiochi, non dà informazioni sulla «decima arte» senza le quali si giochi in modo diverso e più «inesperto». Quello che offre Veronica La Peccerella (traduttrice di letteratura angloamericana e collaboratrice di riviste su videogame, cinema, cultura e lifestyle) nel suo Viaggio al centro della decima arte – come recita il sottotitolo – non è tanto un approfondimento ma piuttosto una prospettiva diversa sul videogioco.

UNA PROSPETTIVA innanzitutto «femminile»: cosa non banale in un medium che la vulgata vuole dominato da adolescenti maschi che sfogano in giochi sportivi e di guerra le loro pulsioni alla violenza.
L’autrice non è una «nativa digitale» (è nata nel 1979 mentre la cesura che divide i nativi dagli immigrati digitali si pone tra la metà degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta) e non rientra nello stereotipo dei ragazzini con smartphone a caccia di Pokemon nella realtà aumentata di Pokemon GO!.

Nonostante ormai sia paritaria la presenza di videogiocatori uomini e donne, quello dei videogiochi è un universo dominato dallo sciovinismo maschilista come nel caso – raccontato da La Peccerella – di Zoe Quinn, game designer accusata di favori sessuali ad un redattore in cambio di recensioni positive. Ingiustamente, ma questo non basta a salvarla dalla valanga di «haters» sulla rete.

Questa prospettiva femminile si esplicita anche quando l’autrice esamina i giochi preferiti non da un punto di vista estetico o semiotico ma piuttosto per la loro capacità di creare emozioni in chi li gioca. Non un caso dunque che l’approccio ai videogiochi sia un approccio di tipo narrativo: non è la muscolarità dell’immagine, la renderizzazione tridimensionale che mette alla prova la potenza «macina-bit» dei processori ad attrarre Veronica La Peccerella, ma piuttosto la capacità di raccontare delle storie o delle situazioni o dei personaggi in cui il giocatore possa identificarsi.

IN QUEST’OTTICA s’inserisce l’intervista a Martina Testa – traduttrice ed editor della casa editrice Sur e già direttrice editoriale per minimum fax – che dichiara candidamente che il suo rapporto con i videogiochi è prevalentemente quello di spettatrice e in quanto tale predilige giochi come The Last Of Us dove si genera un’empatia coi personaggi assolutamente analoga a quelli letterari o cinematografici.

Ma proprio perché l’anagrafe dell’autrice non la situa tra gli ultimi arrivati per i quali il rapporto col videogioco è stato «naturale», nei diari c’è il rapporto con software ed hardware di quelli che oggi vengono considerati seguendo la moda vintage legata al videoludico: retrogame e che ci descrive con gli occhi di una ragazza all’epoca in cui per le ragazze i videogiochi erano off-limits.

PER TUTTI QUESTI MOTIVI Video Game Diaries è un libro destinato a: le ragazze di oggi, che possono scoprire come anche il diritto delle donne a videogiocare non sia un’acquisizione banale, ma piuttosto un processo di conquista per altro non ancora completato; i videogiocatori maschi, troppo spesso interessati solo agli aspetti prettamente ludici considerando orpelli inessenziali tutti gli elementi emotivi e narrativi; i game designer che devono riuscire sempre più a capire come appassionare e coinvolgere l’altra metà del cielo videoludico.