All’ombra degli alberi che puntellano il viale che dà il nome al quartiere, le foglie annunciano l’autunno. A una settimana dall’omicidio del ventottenne pakistano Muhammad Shahzad Khan, la vita di Torpignattara parrebbe tornata alla sua anomala quotidianità. Anziani abitanti storici trascinano le borse a rotelle della spesa. Si fermano a prendere fiato sulle sedie di plastica bianche del «Gran Caffè Hawaii» alternando occhiate annoiate e sguardi spaesati all’indirizzo della popolazione migrante che calca la strada. All’interno del locale, a dirigere il traffico dei bicchierini di vetro bollenti, c’è il baffuto Guido: anni fa si caricò sulle spalle una delle macchine del mitico Sant’Eustachio, nel cuore della Roma turistica, e decise di portare l’arte del caffè in borgata. Oggi Guido si limita ad osservare: «Co’ tutti ’sti cinesi forse è ora che me ne vada in pensione», come fa ormai da anni.

Insomma, chi si aspetta di assistere al prosieguo delle discussioni sui terribili fatti di una settimana fa, rimane deluso: in apparenza sono tornati l’impegno metodico dei commenti calcistici, la routine compulsiva della slot-machine e la rassicurante preoccupazione delle chiacchiere meteorologiche.

Uno sguardo più attento

La superficie di normalità si incrina a uno sguardo più attento. La Comunità di Sant’Egidio ha organizzato una veglia di preghiera in ricordo della giovane vittima che si è tenuta in collaborazione con le parrocchie di zona nella chiesa di San Barnaba, alla presenza del vescovo ausiliario Giuseppe Marciante e che è sfociata in una piccola processione. Da Sant’Egidio chiariscono che questa iniziativa non è una risposta alla manifestazione con la quale alcuni cittadini hanno espresso la loro solidarietà al minorenne che si è consegnato alle forze dell’ordine ammettendo di essere l’autore dell’omicidio. «Avevamo pensato a questo evento prima della manifestazione del 21 settembre scorso in favore del ragazzo arrestato – spiegano dalla Comunità – Vogliamo riaffermare il valore della pace in un quartiere che da molti anni rappresenta un esempio di integrazione multiculturale». Si attende ancora una presenza istituzionale di rilievo che smentisca la sensazione di abbandono. Ieri doveva essere anche il giorno della visita del vicesindaco Luigi Nieri, di Sel, ma l’appuntamento è stato annullato poche ore prima, pare a causa della coincidenza con l’incontro religioso.

I giorni che hanno seguito l’omicidio sono serviti anche a fare chiarezza sulla storia personale della vittima. Shahzad, intanto, non era un “clandestino” allo sbando. Aveva un permesso di soggiorno, aveva lavorato con suo zio, che gestiva un ristorante e che poi si era trasferito a Londra. Da allora, con l’incubo di non riuscire a rinnovare i documenti, aveva provato a sbarcare il lunario vendendo qualcosa per strada e cercando di mandare qualche soldo a casa, dove lo aspettavano una moglie e un figlio di tre mesi che non ha fatto in tempo a conoscere.
«I ragazzi del quartiere conoscevano benissimo Shahzad – raccontato Ejaz Ahmad, mediatore culturale e giornalista pakistano – Era un po’ disturbato, questo è vero, ma non dava fastidio a nessuno. Cantava per strada le sure del Corano e in italiano diceva “Io sono musulmano, sono pakistano”. Non dormiva per strada come è stato scritto da tanti, me l’hanno confermato tutti i negozianti della zona». Occorrono tremila euro per spedire la salma di Shahzad in Pakistan dai suoi cari. Per ricordarlo e per raccogliere i fondi necessari, i suoi connazionali e diversi abitanti del quartiere hanno organizzato una manifestazione che partirà domani alle 18 da piazza della Marranella per arrivare al luogo del delitto, in via Lodovico Pavoni. La comunità pakistana assieme al comitato promotore spiega in un comunicato di aver indetto il corteo «in ricordo di Shahzad ucciso dalla violenza provocata dalla miseria e dall’abbandono in cui versa il territorio e dalla cultura dominante che ci vuole gli uni contro gli altri». «Siamo consapevoli – proseguono – che la guerra tra poveri ha prodotto questa tragedia che colpisce noi tutti, pachistani, italiani e immigrati e che gli uomini e le donne, vecchi e nuovi residenti, immigrati e italiani, devono trovare le forme per ricostruire una comunità unita e solidale».

La manifestazione ha un precedente. Quasi due anni fa, era il gennaio 2012, il quartiere ospitò un corteo di risposta a un fatto di sangue: quella volta era scesa in piazza la comunità cinese, in seguito all’omicidio di un padre e della sua piccola nel corso di una rapina finita in tragedia. I riflettori si accesero solo per qualche giorno. «Anche in quel caso tutto parve cadere nel dimenticatoio, solo che qualche agenzia immobiliare, complice anche la crisi, chiuse i battenti e i segnali di degrado cominciarono a moltiplicarsi», racconta Leo mentre rifiata accanto alla sua bici con due seggiolini (uno per ogni figlioletto) sul ciglio della strada. L’amministrazione della destra di Gianni Alemanno aspettò la vigilia delle elezioni per ripulire il parco di Largo Pettazzoni, che nel frattempo era diventato una foresta, e la voragine apertasi lungo via Filarete blocca ancora oggi un’arteria fondamentale, ingolfando ulteriormente una zona ad alta densità di automobili.

I sandali fuori sui gradini

Verso Porta Furba si infittiscono i sandali fuori sui gradini, segno inequivocabile che a ognuna di quelle porte corrisponde una casa abitata da migranti asiatici e quindi anche un affitto corrisposto a padroni italiani. I migranti appartengono a comunità che gli stereotipi e le semplificazioni vorrebbero unite e impenetrabili, ma che come accade in tutti i gruppi etnici e religiosi sono divisi da stratificazioni culturali e conflitti sociali. Quelli che guardano con più distacco alle questioni di fede, ad esempio, ti raccontano di quando – due anni fa – il quartiere venne riempito di scritte in bengalese il cui contenuto blasfemo sfuggì ai più. Si invitava scandalosamente a percuotere i predicatori integralisti e si constatava polemicamente che secondo i precetti musulmani era più scandalosa una birra di una dose di eroina. L’eroina, in effetti, è tornata a circolare come non accadeva da venti anni: il consumo unisce italiani e migranti e lo spaccio evoca equilibri criminali che vanno al di là del quartiere, in una città che è al centro del riciclaggio di quattrini sporchi e che ha sempre visto l’intreccio tra aree di estrema destra e bande criminali.

Poco più in là dell’acquedotto romano, all’altezza del Mandrione, comincia la strada senza marciapiede e poco illuminata che conduce alla fermata della metropolitana di Arco di Travertino. La metropolitana è un varco verso la città che si aggiunge al servizio fornito dall’autobus numero 105, sempre affollato tanto da divenire nel gergo locale espressione per antonomasia di “calca”. Il 105 percorre tutta la Casilina fino alla stazione Termini. Fa il paio col trenino in superficie delle Ferrovie laziali, che da ormai un paio di mesi ferma a Porta Maggiore causa lavori e che i cinefili ricordano sullo sfondo di alcune delle scene di Roma Città Aperta di Rossellini.

Non è difficile raccogliere commenti all’interno di uno di un negozio di generi alimentari gestiti da bengalesi, uno dei tanti che sfidano orari e festività rivoluzionando le consuetudini commerciali del posto. Raccontano con allarme di quello che temono ormai da qualche tempo: adolescenti italiani in cerca di emozioni aggrediscono innocui migranti pakistani e bengalesi. «Ti avvicinano di notte, con la scusa di chiederti una sigaretta – dicono – Se non ce l’hai o se decidono che hai qualcosa che non va, partono le botte».