Se le affidassero a un regista hollywoodiano magari di quelli un po’ furbetti, ne tirerebbe fuori un prequel/sequel/spin off di successo. Le vicende che hanno preceduto (e accompagnato) The Hateful Eight (nelle nostre sale il 4 febbraio), il nuovo film di Quentin Tarantino sono infatti quasi uno script a sé: dalle polemiche per la copia scaricata e finita in rete prima ancora dell’uscita americana a Natale – sembrava che nessun-ma-proprio-nessuno non lo avesse visto- agli attacchi del sindacato di polizia americano con la richiesta di boicottare il film per la partecipazione di Tarantino alle manifestazioni contro le violenze e gli abusi dei poliziotti. Alle critiche sull’Oscar negato agli african American di cui la mancata nomination per uno dei protagonisti, Samuel Jackson (molto bravo) sembrava essere l’ennesima prova.

 

 

Anche se nella mattinata romana da rock star Tarantino a chi gli chiede se boicotterebbe la notte delle statuette risponde: «Non sono stato nominato quindi non ci vado ma se lo fossi stato certo che avrei partecipato!».

 

 

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The Hateful Eight, dunque, gli «Odiosi otto», tutti maschi tranne lei, Daisy Domergue, la prigioniera destinata alla forca che una sublime Jennifer Jason Leigh rende più brutta sporca e cattiva degli altri. Tutti bianchi, tranne lui, il maggiore Marquis Warren (Jackson), ex ufficiale dell’esercito nordista con un dopoguerra pieno di ombre e di follia. Sanguinari assassini, razzisti, cacciatori di taglie, cinici avventurieri senza fascino, boia istituzionali e per soldi pronti a ammazzarsi.

 

 

Diviso in capitoli, con l’overture di Ennio Morricone e l’intervallo che serve a girare la vecchia pellicola ma solo nel formato 70 millimetri il cui splendore però si immerge nella neve bianchissima e nei paesaggi dello Wyoming per poco. La storia si chiude nelle pareti dell’emporio di Minnie dove i protagonisti trovano rifugio dalla tempesta e giocano una partita a scacchi dell’ambiguità. Nulla è come sembra e nessuno può fidarsi dell’altro.

 

 

Tra un caffè nero bollente, uno stufato troppo perfetto, un pavimento dagli scricchiolii sospetti, una caramella rotolata chissà dove, gli otto si affrontano con le parole e con le pistole. C’è un sentimento folle, commuovente di amore per il cinema in tutto questo che appare quasi come una provocazione. I tempi dilatati si fondono nel cromatismo delle luci, nei dialoghi esasperanti, pieni di sottotesti e di allusioni a qualcos’altro, che ognuno dei personaggi conosce individualmente, segno di una impossibile comunanza in una nazione che deve ancora nascere. Mentre il 70 millimetri teorico nella testa e negli occhi di Tarantino (estendibile anche al digitale) ci risucchia in un’immagine che mischia western, horror, splatter e gore. Una superba messinscena, specie nella seconda parte, di piaceri quasi proibiti davanti al focolare, il torbido delle casette con poltrona e letto a due piazze, pellicce e armi ossessione dell’America.

 
Se la costruzione formale rimanda (come dice lo stesso Tarantino) a Le iene (più l’omaggio esplicito al Carpenter della Cosa e non solo per Kurt Russell e la musica di Morricone), la materia narrativa e i suoi conflitti legano The Hateful Eight a Django Unchained, con la Storia che rimane nel fuoricampo, trascinata dentro dai personaggi. La guerra civile e la «ricostruzione», il razzismo, il nord e il sud, l’America non pacificata che cova nelle sue viscere il Ku Klux Klan. E la sua mitologia che Tarantino scompiglia spudoratamente infilando citazioni, da cineasta postmoderno quale è, passioni e correzioni molto poco «politicamente corretti» di immaginario non addomesticato.

 

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Non c’è un eroe salvifico o da immolare ma solo uno un po’ meno bastardo degli altri. L’uomo nero, il «nigger» col cappello, la pipa in bocca e una lettera di Abramo Lincoln custodita gelosamente nella sua personalissima leggenda (ma è la leggenda sembra dirci che crea realtà) che quella Storia ha massacrato, reso pazzo, macchina crudele di vendetta, più spietato degli altri, dei bianchi. E d’altra parte. come ripete Marquis, non c’è sicurezza per un nero se in giro c’è un bianco armato.
Il filo dell’ambiguità inghiotte il mondo dentro e quello fuori: cosa è giustizia, cosa massacro. La vendetta è un piacere solitario e si può essere colpiti solo nelle parti basse. La battaglia non risparmia nessuno, nemmeno le donne, difatti per i cazzotti e gli sputi in faccia a Daisy hanno accusato in America Tarantino di misoginia. Ma se invece lo sguardo su di loro fosse quello di lei, di Daisy, la donna picchiata e che picchia come gli altri, a suo agio nel mondo dei maschi senza un John Wayne innamorato a salvarla? Stessa sporcizia, sangue, denti spaccati, appena un attimo di infida dolcezza – mentre suona alla chitarra Jim Jones at Botany Bay – che mettono lo spettatore a disagio Non la pulzella indifesa ma una bastarda e senza le rassicuranti armi della seduzione. Ancora un’altra scommessa.