A differenza della Francia, patria del moderno stato laico, gli Stati uniti sono la società occidentale più profondamente religiosa. È lo storico paradosso di una nazione nata – come la Francia – dalla rivoluzione, ma radicata fin dalle origini anche nel fanatismo religioso delle sette integraliste puritane, fuggite dal vecchio continente per fondare le originali colonie teocratiche. L’ethos americano è sicuramente più «dio patria e libertà» che «libertà fratellanza e uguaglianza» e le storie dei due paesi, per molti versi parallelamente nazionaliste, stanno imponendo alcune fondamentali differenze nella lettura dei tragici fatti di Parigi.

Dopo gli attentati, la solidarietà e la partecipazione in America è stata immediata e sincera. L’assenza di Obama dal consesso di Parigi potrebbe però essere stata non proprio casuale, il sintomo di un divario di fondo.
Inizialmente, sui media americani le stragi si sono inserite nella narrazione della guerra globale al terrorismo e sugli organi della destra, i falchi più militaristi hanno puntualmente chiamato a raccolta le forze del bene contro i nemici oscuri della libertà. Questo attacco, però, è stato qualcosa di più: ha colpito un obbiettivo di forte risonanza cuturale, un giornale – e inevitabilmente il dibattito si è subito allargato sul terreno più complesso e trasversale della satira, del vilipendio della religione e della libera espressione. In America, è un tema centrale e fortemente identitario, iscritto non a caso nella carta dei diritti costituzionali sin dal 1791. Il primo emendamento alla Costituzione riguarda di fatto esattamente i due elementi dell’attuale dibattito. Riverito e inculcato ai bimbi sin dalle elementari, l’articolo sempre sbandierato come cardine della democrazia Usa garantisce espressamente la libertà di parola e, al contempo, quella di religione nelle successive accezioni ribadite da una fitta casistica di sentenze costituzionali. Il testo del first amendment specifica che non verranno istituite leggi atte a limitare la pratica religiosa, la libertà di parola o quella della stampa.

Ovviamente, non sono mancati gli esempi di flagranti violazioni di questo principio, vedi le proscrizioni maccartiste della guerra fredda o le attuali persecuzioni di Assange o Snowden. Storicamente, però, nella concezione giuridica americana la libertà di espressione prevale rispetto alla consuetudine europea. È difficile immaginare una sentenza come quella sul diritto all’oblio persa da Google e, in generale, le cause per diffamazione contro giornalisti e opinionisti sono più rare rispetto alla norma italiana. Di solito, le magistrature statunitensi evitano di porre limiti alla libera espressione, secondo le indicazioni costituzionali che considerano lecite espressioni i cortei nazisti e l’incendio di bandiere (sommo sacrilegio). Perfino una croce bruciata dal Ku Klux Klan nel giardino di una famiglia nera è stata valutata una forma di opinione espressa: esecrabile, ma costituzionalmente protetta. Le corti americane ammettono il concetto di hate speech ma la definizione di «espressione di odio» è ristretta alle sole esternazioni che incitano «atti di violenza imminente» contro specifici gruppi etnici o religiosi, lasciando ampio spazio a manifestazioni estreme, come quelle paradossali della Westboro Baptist Church, piccola congregazione del Kansas che ha fatto dell’offesa ingiuriosa un articolo di fede. I devoti del reverendo Fred Phelps usano presentarsi con le loro scritte «dio odia i froci» ai funerali di vittime di attentati e disastri naturali che considerano «punizioni divine» per l’apostasia degli omosessuali, e quando lo fanno godono della protezione delle forze dell’ordine.

Per questo ha suscitato scalpore, non solo fra i progressisti, la rapida deriva repressiva in Francia. Il paradosso degli arresti per apologia del terrorismo, fra cui quello di Dieudonné, poche ore dopo le massicce manifestazione per la libertà di parola è stata denunciata da molti commentatori: il comico satirico John Stewart che, fino ad allora aveva difeso a spada tratta Charlie Hebdo ha annunciato Je Suis Confused. Glenn Greenwald – il giornalista solidale di Snowden – non certo sospettabile di antisemitismo, ha articolato il classico argomento libertario anglosassone, scagliandosi contro l’ipocrisia islamofobica di Bernard Henri Levy, affermando che «nella terra di Sartre, Genet, Foucault e Derrida non hanno trovato di meglio che criminalizzare un post di Facebook, dopo essere sfilati in due milioni dietro lo striscione della libertà di parola».

Effettivamente, sarebbe difficile inventare un caso più speculare agli attacchi a Charlie Hebdo di quello di Dieudonné. E, visto dall’America, nella contraddizione francese si mescolano in ordine sparso rigurgiti islamofobi nazionalisti, antisemitismo, stato di polizia nel nome della libertà. Nel paradosso americano, dal canto suo, vige invece una concezione irrisolta di laicismo: si rimuovono crocefissi dagli uffici pubblici, mentre sulle banconote da 20 dollari la zecca di stato proclama la fiducia in dio e lo stesso fanno gli alunni che ogni mattina a scuola giurano fedeltà alla bandiera.

Mentre statuti come la legge Scelba contro l’apologia del fascismo o i decreti contro il negazionismo, in vigore in molti paesi europei, sono estranei alla giurisdizione statunitense, la libertà di offesa anche qui ha i suoi limiti (più o meno) definiti. Riguardano epiteti razzisti e insulti «etnici». Parole come «nigger» ad esempio, il termine dispregiativo per nero di retaggio schiavista, il cui uso è consentito agli afroamericani, ma proscritto a estranei. Il modello americano non è il laicismo, ma il pluralismo religioso: per questo affida la convivenza multiculturale alla tanto biasimata correttezza politica. I limiti della scorrettezza vengono testati quotidianamente nella satira di South Park, stand-up «etnici» come Margaret Cho, Sarah Silverman o Dave Chappelle. La morale e il moralismo prevalenti, poi, hanno fatto sì che le grandi battaglie sulla libertà di satira si siano combattutte sul campo dell’oscenità, dal pluriarrestato Lenny Bruce a George Carlin a Richard Prior. Nel paese dove molti celebrano Larry Flynt come paladino della libera espressione è più facile che sia la pornografia al centro della questione piuttosto che la religione.

Non ci sono casi di grezza censura politica – i Luttazzi, Guzzanti o Paolo Rossi – ma se la trasgressione è eccessiva può stroncare una carriera, come quella dell’ex Seinfeld Michael Richards, ostracizzato dopo aver apostrofato come «nigger» un membro nero del suo pubblico. Il modello Usa affida l’assimilazione multiculturale alla regole non scritte della sanzione sociale – una sorta di galateo civile che non proibisce l’ingiuria, ma la relega a un ruolo marginale.
Il che spiega perché molti, anche nella sinistra americana, pur difendendo il diritto di espressione di Charlie Hebdo, abbiano definito razziste le vignette di Wolinski e compagni. Ma allo stesso tempo abbiano difeso il diritto «assoluto» di espressione del giornale – e anche quello di Dieudonné.