Afroamericana attualmente biondissima (anche senza toupet di cui è fanatica collezionista), monumentale, entusiasmante in qualunque testo s’impegni, Aretha Louise Franklin – che ha appena pubblicato una raccolta di dieci cover di altrettante signore della black e pop music, Sings the great Diva classics, è indiscutibilmente la signora della black music dalla voce straordinaria ed emozionante, una persona leggendaria con 18 Grammy Awards e oltre 75 milioni di dischi venduti nel mondo, una bandiera di quella rivoluzione afroamericana anni ‘70, fatta di libertà, eguaglianza e diritti civili.
Alla funzione funebre per Martin Luther King, nel 1968, Aretha cantò Precious Lord, la canzone preferita dall’apostolo della nonviolenza, praticamente a cappella su una base d’harmonium, un pezzo che fa venire i brividi ancora oggi. Nel solco di Clara Ward e Mahalia Jackson, le sue muse ispiratrici, due delle tante persone (Sam Cooke, Lionel Hampton, Dinah Washington, Art Tatum) che frequentavano abitualmente casa Franklin, sedendo sul divano, parlando e cucinando (e tra i vicini di casa c’erano Smokey Robinson e Diana Ross).

Aretha è una predestinata assoluta, quarta di cinque figli, sin dall’età di sei anni accompagna spesso il padre, Clarence LaVaughn Franklin, pastore della New Bethel Baptist Church di Detroit, Michigan, in giro per le chiese del sud a dire messe e cantare inni. Il reverendo Franklin incise numerosi sermoni su dischi dell’etichetta Checker (dove la figlia, dapprima giovane corista, si cimentava col classico repertorio gospel) e fu uno dei protagonisti della grande Walk to Freedom del 23 giugno 1963 a Detroit, con 125mila persone (la prova generale dell’oceanica dimostrazione di Washington del 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial, quella del discorso I have a dream).

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In quegli anni Aretha cercava di affermarsi come la nuova stella del jazz leggero, sotto contratto con la Columbia dal 1960, trasferitasi a New York nonostante fosse madre di due figli avuti da adolescente con nonne e cugine che le davano una mano nella routine quotidiana. Dal punto di vista tecnico misurarsi col repertorio leggero di standard americani aumentò la sua versatilità, con la sua casa discografica che voleva trasformarla in un interprete pop facendole prendere lezioni di canto e di ballo, chiedendole di evitare di suonare il piano e gli standard rhythm & blues.

Lo scarso successo commerciale – sebbene brani come Today I Sing the Blues, Won’t Be Long e It Ain’t Necessary So siano autentici capolavori- portò al nuovo contratto con l’Atlantic, nel 1966, affidata alle cure di un team formato dal produttore Jerry Wexler, dall’arrangiatore Arif Mardin e dall’ingegnere del suono Tom Dowd. Nei due anni successivi è una sequela di hit e brani da top ten come I Never Loved A Man e Baby I Love You di Ronnie Shannon, Respect di Otis Redding, Chain of Fools, Since You’ve Been Gone, uno dei primi pezzi scritti da lei, uno di quei pezzi coi fiati, i coretti e una carica travolgente che ridefinisce il soul di quel periodo caratterizzato dalle sue esplosioni di pura energia, urla e acuti, forte di una tecnica portentosa e di una voce da cinque ottave d’estensione.

Da allora data la formula vincente della sua lunga carriera: prendere le canzoni di qualcuno che ammira, reinterpretarle al meglio e farle diventare propri successi. Accadrà così con brani diversissimi tra loro come Satisfaction dei Rolling Stones e I say a little prayer di Burt Bacharach ma la sua consacrazione di superstar è tuttavia (You make me feel like) A natural woman di Carole King, canzone preferita di diverse generazioni di teenager statunitensi.

Ma le ombre della malinconia si allungano – come spiega nella sua autobiografia, From These Roots – tra il fallimento del matrimonio con Ted White, l’arresto per guida in stato di ubriachezza, tante decisionisbagliate in campo economico e poi lo sparo che uccise il padre. La sua capacità di sopravvivenza era tutta nella musica, nelle sue straordinarie interpretazioni di donna risoluta che chiede R-E-S-P-E-C-T o minaccia il suo uomo con Think prima di guardare un’altra donna (spettacolare cammeo nel fast food di Blues Brothers, il film del 1980) o di ritrovare The spirit in the dark, uno spiritual malinconico trasformato in sarabanda indiavolata con lo smagliante coretto da chiesa.

Dagli anni’80 in poi il suo sound si rinfresca attraverso collaborazioni o duetti con, tra gli altri, George Benson, Eurhythmics, Rolling Stones, George Michael e Whitney Houston, forse la sua naturale erede ( anche per la difficile vita privata). Tanto che qualcuno ha azzardato l’ipotesi che Aretha sia semplicemente il ponte necessario tra James Brown e Alicia Keys, il felice stato di grazia di un momento irripetibile della black culture.