Medico, di famiglia musulmana, madre di un bambino di 5 anni e di una di 2, in fuga dall’inferno della Bosnia. Approda a Belgrado dopo cinque giorni di peripezie. In Italia si racconta: «Ero orgogliosa di essere di Sarajevo, anche se la mia città era tutta in macerie».
Con garbo umano e l’inconfondibile tratto poetico, Bozidar Stanisic ci obbliga a non dimenticare la «guerra civile europea» degli anni Novanta: I buchi neri di Sarajevo e altri racconti (Bottega Errante Edizioni, pp. 144, euro 13) sono pagine d’attualità, a oltre vent’anni di distanza, anche se il Nobel a Ivo Andric risale al 1961 e la memoria del professor Plansa ai primi decenni del ’900.

Ma come confessa Paolo Rumiz nella prefazione l’eco delle storie di Stanišic risuona nella nostra coscienza: «Rileggo e rifletto che se oggi viviamo con questa polveriera ancora attiva a cento e passa chilometri da Trieste è perché ce la siamo voluta. Abbiamo consentito che si smantellasse una società plurale in nome di una geometria cantonale che coi Balcani non ha nulla a che fare e abbiamo delegato la nostra difesa agli americani, esattamente come in Iraq, Siria e Maghreb».
Scrittore e professore di lingua e letteratura al liceo di Maglaj, Stanisic con la famiglia dal 1992 abita a Zugliano (Udine) perché aveva opposto la personale obiezione di coscienza ad indossare qualsiasi tipo di divisa.

Con gli altri racconti viene riproposto anche Il falò dei ricordi (pubblicato dal manifesto) che si apre con il rogo della Biblioteca Popolare della Bosnia, altro simbolo dell’assedio di Sarajevo.
Nel libro c’è l’anima della Bosnia incarnata da Bodo, con moglie e donna «parallela», strane scarpe e la frusta, finché entra in una setta religiosa. Anche da morto, scalzo, cammina sopra la città trattenendo il modellino dell’antica Sarajevo incendiata da Eugenio di Savoia.
E la scrittura di Stanisic oscilla sempre fra ricordi metaforici e struggenti istantanee. In particolare, con la santola protettiva che si ostina a conservare vivi gli oggetti del marito e i fiocchi di neve al caffè Quadri di piazza san Marco a Venezia.

Alla fine, non ci si può sbarazzare della complicità che dilaga fino al silenzio indifferente. E rimane come monito una frase replicata all’ennesima provocazione del mendicante: «I potenti fanno ciò che possono, i deboli sopportano ciò che devono».