Una complessa trama di rapporti intertestuali sta alla base del saggio intitolato da Jean-Luc Nancy La comunità sconfessata (a cura di Fausto De Petra, Mimesis, pp. 180, euro 16,00) che si offre, dunque, anche come uno sguardo proveniente dalla prospettiva di quel pensiero della comunità che in Italia è stato trattato, tra gli altri, da Giorgio Agamben e da Roberto Esposito, e che in Francia è datato almeno trent’anni. Nella primavera del 1983 Nancy pubblicò un saggio, «La Communauté désoeuvrée», dedicato alle riflessioni di Bataille; alla fine dell’anno comparve il volumetto di Maurice Blanchot, La Communauté inavouable, composto di due testi, il primo dei quali prendeva spunto da Nancy per trattare il suo stesso tema, mentre il secondo, del quale una precedente versione era già comparsa su rivista con il titolo La maladie de la mort (éthique et amour), è un’analisi del racconto omonimo di Marguerite Duras.

Oggi Nancy racconta quale fu la sua sopresa quando, quarantenne docente di filosofia a Strasburgo e non ancora noto, si vide letto e ripetutamente citato con tanta attenzione da un mostro sacro come Blanchot. Forse un po’ intimidito dall’autorevolezza dell’interlocutore, il filosofo non si preoccupò di rispondergli pubblicamente, ma nel 1986 raccolse in volume il saggio di tre anni prima insieme a due altri testi dedicati allo stesso tema (La comunità inoperosa, traduzione di Antonella Moscati, Cronopio 2002). Finalmente, nel 2014, a trent’anni di distanza dall’inizio di questa storia, quando Blanchot era ormai morto da oltre dieci anni, Nancy riprese in mano l’intero dossier e propose nella Comunità sconfessata una lettura particolarmente serrata, il cui risultato è di non facile lettura, perché presuppone la conoscenza non solo degli altri testi dell’autore ma di quelli di Blanchot e della raggiera di altri filosofi e scrittori coinvolti: Bataille e Duras, in primo luogo, ma anche, sullo sfondo, Emmanuel Lévinas (amico di Blanchot fin dagli anni universitari), Heidegger e alcuni dei suoi interpreti francesi.
L’autore di Essere e tempo è non soltanto una fonte d’ispirazione essenziale tanto per Nancy che per Blanchot, ma una specie di pietra di paragone politica: saggista rigoroso e devoto biografo di Bataille, Michel Surya ha analizzato la parabola politica che ha portato Maurice Blanchot a passare dall’estrema destra all’estrema sinistra (L’autre Blanchot. L’écriture de jour, l’écriture de nuit, Gallimard 2015) e senza misconoscere la sua grandezza letteraria, ha avuto buon gioco nel ritorcere contro di lui quel che lo stesso Blanchot ha ripetutamente detto di Heidegger: quanto più si riconosce l’importanza del suo pensiero, tanto più grave appare il tralignamento che lo ho indotto ad assumere posizioni filo-naziste e tanto più necessario risulta individuare la radice di quella caduta. Allo stesso modo, occorre cercare di spiegare come sia potuto accadere che gli atteggiamenti antisemiti del Blanchot trentenne si siano trasformati nelle posizioni filo-israeliane della maturità.
Più sfumata e più densa, anche se convergente con quella di Surya su alcuni punti, la riflessione di Nancy, che pur non essendo estraneo al problema strettamente politico – non a caso ha appena pubblicato Banalité de Heidegger (Galileé 2015), una analisi dei Quaderni neri – lascia questa questione sullo sfondo, impostando piuttosto la sua analisi di Blanchot sul un piano filosofico, con rigore e minuzia argomentativa. Nella sua postfazione al volume, Fausto De Petra osserva come i tre titoli dei saggi in gioco – La comunità inoperosa, La comunità inconfessabile, La comunità sconfessata – siano tutti connotati da una negazione. Infatti, occorre recuperare il significato che Bataille dava al termine comunità – scrive Nancy – se si vogliono salvare le istanze alla base di quel che si è chiamato comunismo, istanze tradite dal socialismo cosiddetto reale. Finché si resta nella prospettiva della tesi sartriana, che vede nel comunismo un «insuperabile orizzonte del nostro tempo», il tradimento è fatale, perché inscritto nella logica di un progetto mirato a costituire un’unità superindividuale. Per Nancy, invece, i «singoli» (termine che contrappone a «individui», concepiti come atomi isolati) sono già da sempre partecipi di una comunità, che del resto non esiste al di fuori del loro rapporto, anche se la politica e la filosofia non hanno mai cessato di proporne ipostasi immortali e infinite (l’umanità, la storia, il progresso, la patria, la famiglia) in cui si fonderebbero e a cui dovrebbero votarsi i destini degli esseri mortali.
Se è evidente in queste tesi il riflesso della differenza ontologica heideggeriana, il rifiuto cioè di identificare l’essere con la totalità degli enti finiti, Nancy non manca tuttavia di notare l’insufficiente radicalità con la quale in Essere e tempo è pensato il con-esserci (il Mitdasein) contrapponendola alla lucidità con la quale Bataille ha parlato di comunità negativa. La comunità è degli esseri finiti, accomunati appunto dalla loro finitezza, cioè dalla morte: per questo la comunità è inoperosa, perché, così come non ha bisogno di essere costituita, non ha alcuna missioni da compiere, e niente altro le spetta se non assumere la propria mortalità.
Si sa che Bataille, prima della guerra, aveva cercato di organizzare una società segreta, Acéphale, rimasta assai misteriosa ma che avrebbe dovuto fondarsi sul sacrificio umano (ovviamente mai realizzato); l’unico sacrificio a cui aspirare sarebbe – per Bataille – quello in cui il sacrificatore decapita se stesso nell’atto stesso in cui fa cadere la testa della vittima: questo, sostiene Blanchot nella Comunità inconfessabile, è il nocciolo serio del progetto che, se realizzato, avrebbe costituito soltanto una inconsapevole parodia del sacrificio primitivo. Il fallimento di quel paradossale tentativo comunitario, dopo i precedenti costituiti dall’esperienza surrealista e poi dalla mobilitazione politica a favore del Fronte popolare, avrebbero indotto Bataille a una sorta di ripiegamento nel segreto della comunicazione più intima, poi tradotto in quell’attività notturna e inconfessabile che è la produzione di testi violentemente erotici, come Madame Edwarda, letterariamente sconvenienti e pubblicati anonimamente.
Si profila così il nesso con la seconda parte della Comunità inconfessabile, centrata sull’analisi del racconto di Marguerite Duras, La malattia della morte, e introdotta da alcune pagine in cui si celebra il maggio del 1968, «una festa che sconvolgeva le forme sociali ammesse o sperate», dunque la realizzazione del comunismo così come lo intendeva Blanchot, cioè una comunità che esclude qualunque forma istituzionalizzata, formalizzata, definita, e che proprio «senza progetto», cioè inoperosa come aveva detto Nancy, non esclude alcuno sviluppo possibile.
D’accordo con l’idea che lo spirito più profondo del ’68 rifiutava «non solo l’ordine costituito, ma anche qualsiasi disegno costituente, rivoluzionario o riformista», Nancy resta tuttavia perplesso di fronte all’«immediato-universale» al quale si appella Blanchot nelle pagine incantate e incantevoli in cui rievoca il fervore collettivo dell’agitazione politica sessantottesca o la solennità della manifestazione popolare per i morti di Charonne. Ancor più perplessa è la sua reazione alla lettura che Blanchot fa del racconto di Duras, dove è di scena il rapporto senza rapporto di un uomo incapace di amare, che paga una donna (non una prostituta) per imparare da lei l’amore, senza riuscirci. La lettura di Blanchot carica la storia di un alone mitico, che contagia tutto il libro: questa l’opinione di Nancy, che con antenne straordinariamente sensibili, individua una rete di riferimenti destinati a confluire nel mito cristiano della comunione, talvolta tramite riferimenti espliciti, talvolta allusivi, ma che costituiscono comunque il senso della scrittura di Blanchot. Quanto alla vena politica del grande critico, Nancy individua una continuità tra l’uomo di destra e quello di sinistra, una continuità che deriva tuttavia a Blanchot dallo stesso dilemma che ancora oggi ci imprigiona tutti: il rifiuto di concretare la festa evanescente del ’68 in un qualunque progetto, lascia alla comunità soltanto un fondamento mitico, ciò che è proprio di un pensiero di destra: non la destra del dominio economico, bensì quella di «un’elevazione aristocratica e di un disprezzo per la società, le sue funzioni, il suo stato, le sue leggi». Un «anarchismo di destra», insomma, cui non possono non essere sensibili coloro «che si rivolgono all’assoluto», costretti come sono «a pensare al tempo stesso come democratici, in conformità alla giustizia, alla legge, all’uguaglianza, e come aristocratici, in base a una inassimilabile eterogeneità». Per questo – nelle parole di Nancy – la comunità è simultaneamente inconfessabile e sconfessata.