Figli della notte. La sfida del voler vivere, appena apparso per Moretti&Vitali (traduzione di Manuela Moretti e introduzione di Gianluca Solla, pp. 220, euro 16) è un libro singolare e a suo modo eccentrico. Scritto due anni fa (Hijos de la noche, edizioni Bellaterra), nelle intenzioni del filosofo spagnolo Santiago López Petit, docente emerito di filosofia contemporanea all’Università di Barcellona e attivista in numerosi movimenti politici, vi è una sincera spinta autobiografica ma in senso stretto si discosta dal genere in ragione di inserti critici che, espunti e isolati, raccontano apparentemente un’altra storia. O forse è la stessa, se consideriamo l’io narrante come il medesimo autore che, dopo quarant’anni di sofferenze e peregrinazioni inutili tra gli ospedali di mezza Europa, decide di raccontare la propria esperienza di malattia. È una «fatica cronica», così almeno la diagnosticano seppure in maniera incerta, un dolore fisico e psichico di rara intensità che fa perdere il sonno e che rompe la stessa linearità della vita. In questo brancolare nel buio di un pensiero che non riesce più a legarsi con il sentire, López-Petit (oggi ospite al Festivaletteratura di Mantova dove dialogherà con il filosofo Gianluca Solla nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria, ore 15) decide di analizzare questo groviglio claustrofobico con l’afflato speculativo che da sempre lo ha sostenuto, individuando nello sprofondo una sfida politica al presente.

Cosa l’ha spinta a scrivere un libro del genere?
Durante gli otto anni che ho trascorso a scrivere questo libro ho dovuto lottare contro me stesso. Gli effetti della malattia hanno progressivamente divorato la mia capacità di leggere e scrivere. Ho lottato contro i dubbi che mi sono sorti in ogni istante. Per esempio: come si può costruire un libro di filosofia che inizia con una tale affermazione personale: «Ho deciso di scrivere su ciò che accade nella mia testa»? Contro una società che ci ricorda costantemente che non è appropriato, ma anzi estemporaneo parlare della sofferenza o della malattia, queste resistenze si sono incrociate con altre di un ordine completamente diverso.
Quelli che, con le migliori intenzioni e disposti ad aiutarmi, mi consigliavano di allontanarmi dallo scrivere un libro così mi dicevano che avrebbe contribuito a farmi affondare sempre di più nella mia notte. Poi un giorno mi sono reso conto che con questo libro mi stavo giocando tutto. Poggia su un’ipotesi che si trasforma successivamente in una affermazione: la mia diagnosi è la diagnosi di un’epoca, cioè la fatica che mi corrode e mi rende impossibile vivere è la fatica di un mondo esausto a causa del suo sfruttamento. Quello che ho fatto, e che desidererei anche da chi legge, è la presenza in tutta la sua radicalità della domanda «Che cosa è la mia notte?». Rispondere a questa domanda significa semplicemente il coraggio di incarnare questa impossibilità di vivere che, da un punto di vista medico, è la «malattia della normalità».

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Santiago Lopez Petit

Scoprire a un tratto la propria fragilità ha determinato per lei una perdita o una risorsa?
La fragilità può essere certamente una risorsa, ma deve essere separata sia dal concetto di debolezza che dal concetto di vulnerabilità, o almeno dal loro uso più «umanista». La fragilità sarebbe quindi un modo di denominare la riflessività espressa nel verbo «resistere» e che la lingua spagnola consente di dire. Ci permette di resistere e opporre resistenza contro la realtà, in fondo, la fragilità sarebbe un altro nome per quello che qualche anno fa chiamavo «voler vivere».
Nel desiderio di vivere si incontrano, contemporaneamente, la fragilità massima, e allo stesso tempo, la persistenza massima. Con questo voglio dire che se il concetto di fragilità può avere implicazioni politiche deve essere in senso veramente critico e non per il suo rapporto con la finitezza. La fragilità si riferisce al potere del nulla, ciò permette di andare al di là del già detto e del già noto. Vivere oggi significa accettare, di giorno in giorno, che la vita stessa è senza valore, che si viene manipolai e posti al servizio e, infine, abbandonati al proprio destino. Di fronte a questa obsolescenza programmata, che è il nostro destino, la potenza del nulla non è un’idea metafisica incomprensibile, ma qualcosa di molto semplice: se per la realtà – e la realtà è quella capitalista – la mia vita non vale niente, la paura scompare. Non ho nulla da temere. Siamo in grado di perforare la realtà, di sovvertire il dominio dei pronomi e il gioco della vita, ma per fare questo dobbiamo prendere il potere dal nulla e uscire dal nichilismo. Ogni volta che ci liberiamo delle fabbriche dell’impotenza, ogni volta che abbiamo il coraggio di attraversare un vicolo cieco, prendiamo questo potere nelle nostre mani. La fragilità è quindi una risorsa quando è sinonimo della potenza del nulla.

In che senso il suo libro è una critica radicale al presente?
Una critica radicale deve essere veritiera. O almeno provarci. In altre parole, non si può politicizzare il malessere sociale se non si è appreso il proprio. Se vogliamo fare del male a questa realtà ingiusta e miserabile siamo noi stessi a dover sperimentare qualche tipo di danno. Il resto è inganno. Questa critica rompe completamente con un certo modello platonico, non c’è infatti bisogno di cercare la verità fuori, perché la verità sta nel corpo ferito che resiste alle catene che lo costringono. Per questa ragione, la verità non appartiene ai leader o agli esperti. Abita invece il corpo di un’anomalia che persiste. La verità abita nel corpo di tutti quelli che si assumono come un’anomalia, perché non vogliono pagare il prezzo della normalità. Per questa ragione, la verità non si comunica. Si contagia.

In che modo la filosofia l’ha aiutata a nominare la verità?
Diciamocelo chiaramente, la verità del capitale è quella che ha avuto successo e di fronte a essa non vi è, al momento, alcuna alternativa. La verità del capitale ha avuto successo perché può organizzare il mondo, basta vedere cosa accade in relazione alla crisi attuale. Nessuno è in grado di mettere al centro del dibattito la necessità di vera trasformazione sociale. Di fronte alla verità del capitale che distrugge il mondo oppongo quella del corpo malato che resiste, o la vita dell’anomalia. Il concetto tradizionale di verità e di corrispondenza non mi servono, né la critica di Heidegger che porta alla definizione di verità come svelamento (aletheia). Volevo inscrivere la verità in quello che con Espai en blanc (http://espaienblanc.net) ho chiamato la «battaglia del pensiero». La verità è un processo, uno spostamento, deve portare a una nuova costellazione di corpi-cose-parole in cui l’espressione «voler vivere» si congiunge efficacemente.
Lei ha fatto parte del movimento operaio e ancora è un attivista in alcuni movimenti. Cosa pensa si possa fare di significativo contro il neoliberismo?
Fare fronte al neoliberismo implica misurarsi con uno sfruttamento capitalistico che ha esteso il sequestro del tempo di lavoro a tutta l’esistenza. Lo sfruttamento culmina in una mobilitazione permanente della nostra vita. Ci mobilitiamo quando lavoriamo, e quando non lavoriamo, quando vogliamo essere noi stessi. Ognuno di noi è un’unità in costante mobilitazione, e il lavoro consiste nel lavorare la propria vita, diventare un io ci evita di cadere nel buco. Tanto tempo fa abbiamo smesso di vivere per poter gestire la nostra vita. La figura dell’anomalia e della «vita rotta», proprio perché si rompe, è in grado di uscire da questa prigione a cielo aperto. Ovviamente, il «voler vivere» ha anche una dimensione collettiva: è il potere dell’anonimato. Parlare di esso e di come funziona ha portato all’occupazione delle piazze, ai movimenti compreso quello degli indignados – anche se questo nome non mi è piaciuto.

Disperazione, morte, sicuramente tutti aspetti filosofici ragguardevoli. E per il desiderio non c’è spazio?
Il concetto di desiderio non mi serve perché si riferisce alla dialettica hegeliana, e nelle sue versioni contemporanee è una affermazione vitalista che sempre mi è parsa ambigua. Così ho preferito, come ho detto prima, parlare di «voler vivere». La prima volta che ho affrontato la questione del «voler vivere» l’ho fatto nell’orizzonte politico che apriva la crisi della classe operaia come soggetto. La disarticolazione del movimento operaio progrediva, si era reso necessario pensare «il sociale» da categorie che non rimanevano bloccate nella dicotomia conosciuta: attivo/passivo, soggetto/oggetto, etc.
Questo approccio sociologico al «voler vivere» mi è sembrato presto insufficiente. La filosofia mi ha permesso di rompere l’impasse e di passare dalla «vita» alla «voglia di vivere». La vita in sé non esiste, esiste il voler vivere. Nello stesso modo in cui non vi è alcun potere, ma le relazioni di potere, né la libertà senza i processi di liberazione. Questo approccio «nominalista» alla vita mi ha permesso di affermare che «vivere» consiste nel coniugare l’espressione «voler vivere» e, allo stesso tempo, definire la vita. Il mio obiettivo è stato quello di rendere il desiderio di vivere un grido, una sfida.