Il campo profughi di Dheisha è quasi vuoto, stretto tra il caldo del primo pomeriggio e i tempi lenti del Ramadan. È di notte che la battaglia si accende: l’esercito israeliano arriva prima della mezzanotte e gli scontri infiammano i vicoli. Lancio di pietre da una parte, dall’altra gas lacrimogeni e proiettili. «Non vogliamo fermarci ora, con Gaza sotto attacco – ci dice Sami, attivista del centro Ibdaa – Sappiamo di essere soli, come sempre. Ramallah non sosterrà gli sforzi della resistenza, tornerà all’ovile israeliano e al foraggiamento degli aiuti internazionali. Il resto dei paesi arabi? Ci hanno tradito nel 1948, ci hanno tradito nel 1967.

Perché dovrebbero intervenire ora?». Mentre Sami parlava gli Emirati Arabi annunciavano una donazione da 25 milioni di dollari alla popolazione gazawi, 5 milioni quelli in arrivo dal Qatar. «Ai leader arabi piace parlare, riempirsi la bocca con la causa palestinese. Ma l’unica cosa che faranno, dopo che l’offensiva sarà finita, sarà mandare denaro, petroldollari. Ma non ci appoggeranno, non lo hanno mai fatto, eppure a Gaza si muore tutti i giorni. Il resto della comunità internazionale? – Sami scoppia in una risata – Hanno bisogno di Israele, non lo fermeranno».

Ieri quella comunità internazionale era riunita al Palazzo di Vetro. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è riunito per discutere della crisi, dell’operazione militare contro Gaza e del lancio di missili verso Israele. Tel Aviv e Washington hanno lavorato con forza per evitare una condanna dell’operazione militare israeliana, della distruzione di decine di abitazioni civili e l’uccisione di donne e bambini. In particolare l’azione di lobby si è concentrata sulla Giordania, unico paese arabo dei 15 membri.

A monte le dichiarazioni dei rappresentanti palestinese e israeliano a New York. Riyad Mansour, ambasciatore dell’Anp all’Onu ha accusato il Consiglio di «restare paralizzato mentre i palestinesi subiscono crimini di guerra e la punizione collettiva israeliana». «Parlo a nome del sofferente popolo di Palestina che sta affrontando ancora una volta morte, distruzione, terrore. Domandiamo al Consiglio di fermare subito il bagno di sangue nella Palestina occupata», ha chiesto Mansour. Ron Prosor, rappresentante di Tel Aviv, ha puntato il dito contro Hamas: «Hanno iniziato loro e non ci hanno lasciato altra scelta. L’esercito israeliano opera con bombardamenti precisi per evitare l’uccisione di civili. Le nostre città sono sotto attacco. Che il Consiglio condanni Hamas e il terrorismo».

«Oggi è più urgente che mai trovare un terreno comune per tornare alla calma e alle condizioni per il cessate il fuoco»: alle parole del segretario di Stato Ban Ki-moon che in apertura del meeting di urgenza di ieri ha chiesto di lavorare subito alla tregua, Prosor ha risposto con durezza: «Il nostro obiettivo non è il cessate il fuoco, ma smantellare l’infrastruttura di Hamas». Stessa la reazione del premier Netanyahu che ha liquidato l’idea di uno stop dell’operazione militare: «Non è in agenda».

Da parte sua il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas – che mercoledì ha annunciato l’intenzione di aderire alla Corte Penale Internazionale – ha continuato a tentare la via del dialogo con i governi occidentali. In una telefonata con il segretario di Stato statunitense, John Kerry, Abbas ha sottolineato l’importanza di raggiungere al più presto la tregua e di fermare l’aggressione contro Gaza. Kerry, il grande perdente di questa nuova crisi dopo aver trascorso mesi nel tentativo di portare avanti il dialogo tra le due parti, ha definito l’attacco contro Gaza «un momento pericoloso» e ha detto alla stampa di essere in contatto continuo con Ramallah e Tel Aviv per verificare l’esistenza dello spazio per una tregua.

Senza dimenticare la solita condanna a senso unico: «Nessun paese può accettare il lancio di missili contro civili, sosteniamo completamente il diritto di Israele di difendersi». Telefonate a Ramallah e a Gaza sono giunte anche da Ankara che ha espresso sostegno alle due fazioni palestinesi, Hamas e Fatah, mentre i 57 membri dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica annunciavano ieri dall’Arabia saudita la creazione di un team che facesse pressione sull’Onu per la condanna dell’operazione militare israeliana e l’avvio di un’indagine internazionale sui crimini di Tel Aviv.

Ma il grande assente resta l’Egitto: il nuovo presidente Al-Sisi non intende relegare in un angolo le gravi tensioni con Hamas, braccio palestinese dei nemici Fratelli Musulmani, e ha chiarito che non ricoprirà il ruolo di mediatore che nel novembre 2012 fu il deposto presidente Morsi a vestire.