«Il terrorismo costituisce una minaccia diretta alla sicurezza dei paesi Nato», ha dichiarato il Consiglio Nord Atlantico, condannando «gli attacchi terroristici contro la Turchia» e impegnandosi a «seguire gli sviluppi alla frontiera sud-orientale della Nato molto da vicino». Nessuno ne dubita. In Turchia la Nato ha oltre venti basi militari, rafforzate da batterie missilistiche statunitensi, tedesche e spagnole, in grado di abbattere velivoli nello spazio aereo siriano. Sempre in Turchia, a Izmir, la Nato ha trasferito il Landcom, il comando delle forze terrestri dei 28 paesi membri, oggi in piena attività.

Come documentano anche inchieste del New York Times e del Guardian, soprattutto nelle province turche di Adana e Hatai e in Giordania la Cia ha aperto da tempo centri di addestramento di militanti islamici provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri paesi, preparandoli e armandoli per azioni terroristiche in Siria. Compresi quelli che in Siria hanno formato l’Isis per rovesciare il governo di Damasco e hanno quindi attaccato l’Iraq nel momento in cui il governo dello sciita al-Maliki prendeva le distanze da Washington, avvicinandosi a Pechino e Mosca. Le armi, provenienti soprattutto via Arabia Saudita e Qatar, entrano in Siria attraverso il confine turco da cui transitano ogni giorno centinaia di tir senza alcun controllo.

Ora, dietro il paravento della «lotta all’Isis» (organizzazione di fatto funzionale alla strategia Usa/Nato), la Turchia attacca i curdi del Pkk, che combattono contro l’Isis. Sostenuta dalla Casa Bianca che, per bocca del portavoce Alistair Baskey, definisce il Pkk «un gruppo terroristico» affermando che «la Turchia ha il diritto di difendersi contro gli attacchi terroristici dei ribelli curdi». Contemporaneamente Stati uniti e Turchia hanno concordato un piano per la creazione di una «zona sicura», formalmente «libera dall’Isis», lungo una fascia di un centinaio di chilometri in territorio siriano al confine turco. Il piano prevede l’impiego di cacciabombardieri statunitensi dislocati in Turchia e di forze terrestri turche, affiancate in operazioni coperte da forze speciali Usa/Nato. Tale fascia, su cui viene imposta una «no-fly zone», dovrebbe essere controllata da quelli che il New York Times definisce «insorti siriani relativamente moderati». Armati e addestrati dagli specialisti delle operazioni speciali del Comando centrale Usa per garantirsi il controllo della Siria se fosse rovesciato il governo di Damasco, molti dei quali sono confluiti nello Stato Islamico e nel fronte qaedista al-Nusra che perseguono lo stesso obiettivo.

Gruppi «ribelli» vengono sostenuti anche da Israele, come ha dichiarato lo stesso ministro della difesa Ya’alon (v. The Times of Israel, 29 giugno 2015). La creazione della «zona sicura», formalmente a fini umanitari per dare rifugio ai profughi siriani, costituisce l’inizio ufficiale dello smantellamento della Siria, Stato sovrano membro dell’Onu, Stato che ha rinunciato alle armi chimiche, al contrario di Israele che ha anche quelle nucleari. La Nato va anche «in soccorso» dell’Iraq, minacciato dall’Isis: ha annunciato il 31 luglio che addestrerà in Turchia e Giordania combattenti iracheni (selezionati da Washington ai fini della balcanizzazione dell’Iraq). Attua così la strategia che mira a ridisegnare la carta del Medioriente cancellando, come è stato fatto in Europa con la Jugoslavia e in Nordafrica con la Libia, gli Stati ritenuti di ostacolo agli interessi dell’Occidente. Provocando milioni di morti e di profughi, mentre la Casa Bianca pubblica la petizione popolare contro l’uccisione del leone Cecil per dimostrare la propria umanità.