A causa degli eventi bellici che stanno sconvolgendo paesi di antichissima origine quali Iraq e Siria, l’archeologia orientale non può più essere considerata soltanto una disciplina accademica o scientifica ma deve allargare il proprio orizzonte.
È questo il presupposto in base al quale il Camnes (Center for Ancient Mediterranean and Near Eastern Studies) – fondato nel 2010 – ha convocato per il 16 e 17 dicembre a Firenze, nel Palagio di Parte Guelfa, i maggiori studiosi italiani di archeologia del Vicino oriente per dibattere pubblicamente sulle prospettive del settore. «L’archeologo non è uno statista o uno stratega – dice Stefano Valentini, che dirige il Camnes assieme a Guido Guarducci – ma in virtù delle sue conoscenze può contribuire alla soluzione delle crisi in atto».

SECONDO DAVIDE NADALI, docente di archeologia e storia dell’arte del Vicino oriente antico alla Sapienza di Roma, e membro del comitato scientifico che organizza l’incontro fiorentino «noi archeologi siamo ambasciatori sul campo perché durante le missioni di scavo ci rapportiamo sia con i rappresentanti politici e istituzionali del paese che con la comunità del territorio in cui operiamo. Dei contesti rurali, che normalmente sfuggono all’attenzione di un semplice turista, impariamo a comprendere gli aspetti più autentici. Ciò ci consente di avere il polso della situazione riguardo le trasformazioni della società».

Impegnato dal 1998 al 2010 negli scavi di Ebla in Siria, Nadali ricorda come a Tell Mardikh (nome moderno della città carovaniera, ndr) negli ultimi anni si potesse riscontrare, attraverso il comportamento di alcuni operai più giovani, una radicalizzazione di tipo islamista. L’archeologo dovrebbe essere usato come fonte di informazione ma non di tipo spionistico alla stregua dei primi esploratori di antichità irachene, che erano funzionari al servizio dei governi occidentali e archeologi per hobby. Ora occorre lavorare per il dialogo.

Proprio a questo proposito, Nadali spiega come la missione archeologica di Tell Zurghul (antica Nigin) nella provincia meridionale del Dhi Qar in Iraq, di cui è a capo con Andrea Polcaro dell’università degli studi di Perugia, stia portando avanti una collaborazione con la scuola del villaggio.

LO SCOPO È QUELLO di creare un circuito in cui l’istruzione vada di pari passo con la prevenzione e la custodia del sito archeologico. «In Iraq e Siria stiamo assistendo a eventi di natura straordinaria come templi che vengono fatti esplodere – afferma Valentini – Non possiamo reagire con strumenti ‘tradizionali’. L’archeologia in Medioriente soffre di un retaggio colonialista. L’Occidente dovrebbe impegnarsi affinché le comunità scientifiche locali crescano. Penso, inoltre, che una coscienza etica vada sempre anteposta agli interessi della ricerca. Non bisogna intestardirsi a presenziare nelle zone di guerra ma concentrare le energie sul potenziamento degli archivi e l’elaborazione di strategie di azione post-bellica, in modo da essere pronti quando sarà possibile tornare sul campo in condizione di pace».