L’affaire Hadid è nato lo scorso febbraio quando il quotidiano inglese «The Gardian» ha riportato le «scabrose» dichiarazioni della starchitect anglo-irachena, autrice, tra le altre cose, del museo Maxxi di Roma, sulle condizioni dei lavoratori edili nell’emirato del Qatar che si appresta ad intraprendere la costruzione degli stadi che dovrebbero venire utilizzati per i mondiali di calcio del 2022. Nell’intervista, divenuta cause celèbre, Zaha Hadid, interrogata sulle molte centinaia di operai morti  nell’emirato, che molti  citano come una delle buone ragioni per rivedere la decisione di tenere i mondiali in Qatar, dichiarava infelicemente che «non era suo compito come architetto preoccuparsi di risolvere tali problemi».

ZahaHadid
Zaha Hadid è autrice del disegno dello stadio Al Wakrah che dovrebbe divenire il simbolo dei mondiali Qatari: un progetto radicale le cui curve fluenti hanno dato vita ad un tormentone sulla presunta somiglianza ad una vulva. La «polemica» sulle forme «eccessivamente femminili» – un giudizio apparentemente condiviso anche da alcuni vertici della Fifa – è stato respinto e giustamente criticato dalla stessa Hadid (primo architetto donna a vincere nel 2004 il premio Pritzker, una sorta di premio Nobel per l’architettura) come rozzo e discriminatorio. Ma l’architetto non ha aiutato la propria causa con le dichiarazioni sui lavoratori rilasciate al «Guardian», specialmente dato che,  ad oggi, oltre 500 lavoratori indiani e altri 382 provenienti dal Nepal hanno trovato la morte nei letali cantieri del boom edilizio in Qatar dal giorno in cui il paese si è aggiudicato il massimo torneo di calcio.
In questo contesto affermare come ha fatto, Zaha Hadid,  che «non posso farci niente perchè in quanto architetto non il potere di modificare questo dato di fatto – speriamo che possa essere risolto» è indice, se non di ignavia, di un fondamentale equivoco sulle responsabilità sociali proprie e dell’architettura.  Non a caso diversi suoi eminenti colleghi si rapidamente dissociati. Richard Rogers coprogettatore del centro Popmpidou e del Millenium Dome di Londra ha ribadito «la responsabilità che gli architetti hanno verso la società», mentre Daniel Libeskind ha invitato i colleghi ad interrogarsi sulla «legittimità delle proprie commesse». L’architetta anglo-irachena non ha però fatto marcia indietro, al massimo si è lasciata andare in una precisazione, affermando che «anche in Irak ci sono molti morti che al limite mi stanno più a cuore». Una dichiarazione che ha portato molti a chiedersi chi mai potesse essere il consulente di immagine dell’architetto, non certo nota per l’attitudine alla conciliazione.
Nel coro di critiche è spiccata quella di Martin Filler che scrive di architettura sul prestigioso  «New York Review of Books». In una sua recensione di un libro (Why We Build: Power and Desire in Architecture  di Rowan Moore), che parla anche delle «relazioni pericolose» fra architettura moderna ed Emirati, Filler ha dedicato un lungo ed impietoso excursus al «caso Hadid» in cui fra l’altro attaca l’architetta anglo-irachena per la «palese indifferenza verso i lavoratori deceduti nella costruzione dello stadio da lei progettato».  Ma mentre i progetti dello stadio sono stati approvati, la costruzione non è ancora cominciata, quindi i decessi, che pur ci sono stati, non sono avvenuti come scritto da Filler durante la realizzazione dello stadio progettato dalla Hadid, che verrà infatti costruito a partire dal 2015. Da qui la decisione, la scorsa settimana, di Zaha Hadid di querelare Filler e il suo giornale per diffamazione.
L’azione  legale, pur giustificata nello specifico (Filler ha in seguito diffuso una nota di rammarico per «l’imprecisione» contenuta nel suo articolo), ha gettato altra benzina su uno scomodo affaire senza peraltro aiutare la reputazione della agguerrita architetto, anche perchè come ha titolato Paul Goldberger su Vanity Fair Zaha Hadid is still wrong. Zaha Hadid ha comunque torto per la presa di posizione sulle condizioni di vita e lavoro degli operai «importati» dal subcontinente asiatico (attualmente 1,4 milioni) per lavorare nell’Emirato in condizioni che gli osservatori per  i diritti civili definiscono di quasi schiavitù, con passaporti sequestrati, abitazioni inumane in campi di lavoro a 50 gradi e turni forzati. Anche se è vero che la costruzione dello stadio di Hadid e degli altri quattro progettati non è ancora iniziata, è altrettanto vero che oggi come oggi praticamente tutti i progetti edili possono ritenersi collegati ai mondiali. I cantieri richiedono inoltre il consueto enorme sforzo infrasrutturale del paese ospite. In questo caso, siamo in presenza di una nazione che ha 250000 abitanti, che è uno dei paesi più ricchi, conservatore e antidemocratico al mondo e che nei cantieri per i mondiali potrebbero perdere la vita, secondo uno studio della confederazione sindacale mondiale, altri 4000 lavoratori prima del 2022. L’affare Hadid è solo una delle polemiche ai margini di una assegnazione dei  mondiali che molti  ritengono dovrebbe essere rivista.