Si deve a Cameron Sinclair, il fondatore di Architecture for Humanity, l’avere per primo applicato l’open source in architettura. Era il 1999 quando, per rispondere all’emergenza abitativa dei rifugiati del Kosovo, Sinclair pensò fosse necessario l’uso del web per gestire la progettazione a distanza e coordinare così l’aiuto umanitario dei suoi numerosi sostenitori. Si deve invece a Carlo Ratti, ingegnere, architetto e docente al Mit, l’avere da noi introdotto nel 2011, su invito della rivista Domus, i temi della «progettazione open source».

Le sue tesi sulle pagine online della rivista milanese e il confronto con quelle di altri partecipanti hanno generato un dibattito che è diventato l’oggetto del saggio Architettura Open Source. Verso una progettazione aperta (Einaudi, pp. 142, euro 11). Scrive Ratti: l’«Osarc (acronimo di Open Source Architecture, n.d.r.) sostituisce l’architettura statica, fatta di forme geometriche, con processi dinamici e partecipativi, network e sistemi informatici». Lo scopo è ambizioso: «trasformare l’architettura tramutandola da un meccanismo produttivo immutabile, dall’alto verso il basso, in un sistema ecologico trasparente, inclusivo, dal basso verso l’alto». Per intenderci, un diverso e nuovo modo di progettare, conseguenza della rivoluzione delle applicazioni digitali. Attività svolte da designer raccolti in comunità o gruppi connessi in rete e che sono ormai una realtà diffusa che genera sistemi di autocostruzione.
Con l’arrivo delle stampanti in 3D è semplice, infatti, ottenere oggetti di design. L’autoproduzione finisce così per estendersi dai mobili alle piccole unità abitative, come dimostrano gli arredi di Filson e Rohrbacher o il kit di costruzione per una casa di Alastair Parvin. I creatori di questi nuovi prodotti, non solo condividono con altri l’ideazione, ma guidano il completo «processo generativo» per realizzarli: nuove forme di finanziamento (fundraising), soluzioni standardizzate di hardware, strumenti e mezzi idonei per orientare la partecipazione.

Dopo Prometeo
È ancora presto per vedere come il nostro ambiente urbano e domestico sarà trasformato dalle applicazioni dei processi open source. Un fatto è certo: sarà soprattutto il ruolo centrale che avranno i «paradigmi partecipativi» a stabilire un miglioramento della sostenibilità nelle nostre città. Purtroppo anche se abbiamo le tecnologie e sono già una realtà le pratiche open source in molti settori dell’industria, l’architettura resiste «ermeticamente chiusa». È questo un aspetto che interessa in modo particolare il sistema dell’informazione. L’architettura partecipata, scrive Ratti, «è tenuta ai margini da un mondo che ancora si aggrappa ai nomi e alle firme dei suoi geni creatori». I media sostengono l’architetto prometeico, quindi la qualità autoriale, a discapito dell’architetto corale, quello che sa implementare modelli aperti di progettazione. Sembra non esserci alternativa a questa rappresentazione che vede inconciliabili i due ruoli.

È naturale però che la realtà sia più articolata e complessa di quella illustrata da Ratti, come dimostrano alcune vicende di progettazione partecipata del passato. Non tutti i programmi d’inclusione prima delle possibilità offerte dalla rete hanno utilizzato «strumenti rozzi», così come non necessariamente la risposta al formalismo di molta architettura contemporanea sta nell’architettura senza architetti.
Due saggi appena riediti da Elèuthera, assenti da circa un decennio dalle librerie, possono aiutarci ad approfondire meglio questo intreccio di temi che riguardano la dimensione sociale e civile del fare architettura. Marianella Sclavi, etnografa urbana al Politecnico di Milano, ha raccolto sotto forma di conversazioni la storia di Avventura Urbana, la formazione di architetti e urbanisti che dagli anni ’90 hanno condotto dal basso il dialogo tra cittadini e istituzioni per la realizzazione di spazi pubblici nella periferia di Torino. Avventure urbane. Progettare la città con gli abitanti (pp.246, euro 16) è il dialogo serrato nella concreta realtà dei problemi delle frange periurbane di un manipolo di convinti professionisti alle prese con i conflitti generati da disuguaglianze e generali incompetenze.
Iolanda Romano, fondatrice del gruppo, Sergio Guercio, Andrea Pillon, Matteo Robiglio e Isabelle Toussaint sono i protagonisti che con tenacia hanno svolto, e ancora svolgono, il compito di coinvolgere i cittadini nella progettazione del proprio territorio. L’elenco dei loro interventi va dalla «negoziazione creativa» per due centri commerciali nella periferia ovest alla riqualificazione dell’area industriale Venchi Unica; dal recupero del quartiere di edilizia popolare di via Arquata al «Programma di Recupero Urbano» (Pru) di Corso Grosseto fino alla «concertazione partecipata» per un inceneritore di rifiuti.

Esperienze difficili dove si è cercato di applicare gli strumenti del Planning for Real adottati dagli anni settanta nell’urbanistica nordeuropea, che poi si sono diffusi in Spagna e in Francia. Strumenti da noi del tutto estranei a causa dello scarso interesse delle istituzioni, passive nel comprendere l’importanza del dialogo con i cittadini per una molteplicità di ragioni che il libro spiega molto bene nei particolari. Alla base c’è il nostro diverso sistema giuridico che a differenza di quello anglosassone non permette alla pubblica amministrazione quell’autonomia nella risoluzione dei conflitti per come essa è «imbrigliata» da norme e leggi.

Soluzioni condivise
Pertanto, nella sua «imparzialità», questa è incapace di ponderare e mediare gli interessi altrui, mal difesi e rappresentati purtroppo anche dai partiti. In contrasto con l’astrattezza dell’amministrazione, l’esperienza torinese ha dimostrato come – con la capacità di ascolto e l’interpretazione dei bisogni e delle emozioni delle persone – si possano individuare soluzioni condivise, «mondi possibili», anche nelle situazioni più difficili e complesse. Non occorrono tecniche eccezionali perché la progettazione partecipata ottenga validi risultati.

Piuttosto, occorre ricercare quei «meccanismi grazie ai quali la progettazione assomigli sempre meno a un programma prestabilito» (Sclavi) e poi bisogna moltiplicare i protagonisti da mettere in rete (auto-organizzazione) perché solo dalla «polifonia di interessi» possono scaturire soluzioni intelligenti.
Di ciò ne era pienamente convinto anche Giancarlo De Carlo che, nella postfazione al saggio, così scrive: «La partecipazione impone di superare diffidenze reciproche, riconoscere conflitti e posizioni antagoniste». Fiducia e confidenza sono gli ingredienti per un’efficace comunicazione. Solo quando si raggiunge questo livello di socialità «l’ambiente si scalda e ‘accade’ la partecipazione, che è un evento non solo intellettuale o mentale, ma anche fisico, alimentato da calore umano». De Carlo può essere considerato un precursore dell’architetto corale, anzi un suo «antenato», al pari di coloro che, dopo l’estinzione dei Congressi Internazionali di Architettura Moderna, diedero vita al Team X.
Gli anni vissuti da De Carlo sono, però, quelli dei «processi analogici» e non di quelli digitali nei quali «lo spazio si è ampliato»- come evidenzia Ratti – e «il tempo è collassato». Eppure i risultati di quella partecipazione attiva, fatta di «calore umano», ha prodotto risultati indiscussi a Terni e a Urbino, mentre l’odierna «co-creazione», affidata allo scambio in Internet, deve ancora conquistarli.
In Conversazioni su architettura e libertà (Elèuthera, pp.255, euro 15) De Carlo spiega a Franco Buncuga, con molta chiarezza, gli sforzi compiuti sulla necessità non solo di coinvolgere gli abitanti nel processo partecipativo, ma anche su come cambiare l’architettura affinché possa essere partecipata. Le pagine nelle quali De Carlo racconta dell’involuzione dei principi del Movimento Moderno potrebbero funzionare da monito su quanti confidano oggi nell’esclusiva «integrità dei mezzi», senza preoccuparsi che gli interessi economici e politici sono sempre scalfiti quando il cambiamento interessa la città e il territorio.

Compromessi mondani
Léger negli anni cinquanta – ricorda De Carlo – avvertiva gli architetti dei rischi ai quali andavano incontro perché «stavano oltrepassando i limiti dell’architettura leggera, quella delle case per gli amici, delle mostre e dei concorsi». Si annunciava il «nuovo», ma covavano «i germi della compromissione e del protagonismo». La storia a volte subisce una strana circolarità e appare ripresentarsi con gli stessi dispositivi. La scena dell’architettura contemporanea non sembra così cambiata dagli anni narrati da De Carlo: siamo sempre più immersi in ogni genere di eclettismo in un «vortice di fatuità e mondanità molto simile a quello che agita il campo della moda».

Quanto l’architettura open source saprà invertire una tendenza lo vedremo negli anni a venire verificando le concrete trasformazioni che avranno le nostre periferie, i nostri centri storici, il nostro paesaggio. Sappiamo, però, fin da ora che occorrerà «molto talento nella progettazione partecipata», essere «ricettivi, prensili, agili, rapidi nell’immaginare, fulminei nel trasformare un sintomo», come raccomandava l’architetto genovese. Tutte doti che agli architetti non mancano e che necessitano solo di ascolto.