Dica sessantatré. Lo stato di salute della politica in Liguria magari lo puoi misurare anche così, quando mancano dodici giorni al voto che eleggerà il prossimo presidente della giunta regionale. E quando l’ultimo, l’ennesimo, tema hot è quello delle larghe intese. Sarebbe l’ipotesi di un accordo post-elettorale tra Pd e centrodestra, unico modo ipotizzato per garantire la governabilità in Liguria, dopo dieci anni di governo-Burlando.

Sessantatré sono le donne e gli uomini presenti nell’auditorium del Teatro Carlo Felice, dove arriva Andrea Orlando, ministro di Giustizia, sbarcato per sostenere la candidata governatrice Raffaella Paita, spezzina e dunque sua concittadina.

Sessantatré, tutti compresi, agenti della scorta ministeriale, segretari regionali (Giovanni Lunardon, ex oppositore di Paita), genovesi (Alessandro Terrile) ed eurodeputati come Brando Benifei, “giovane turco”, anzi giovanissimo. Orlando interviene sul tema “anticorruzione e antimafia”, Lella Paita non ha neppure il tempo di ascoltarlo. Se ne va prima che il ministro parli, «scusate, ma gli impegni della campagna elettorale sono massacranti». La candidata trova solo il tempo di dare la sua ricetta anche su questo argomento spiegando che la «legalità va già insegnata a scuola». E proponendo «un garante per i detenuti». Ben detto, arrivederci e grazie.

Non sarà cortesissima la candidata, ma si sa, lei va di corsa. Di corsa ha pure smentito che dopo il voto potrebbe abbracciare la destra di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, qui unita e capitanata dal “delfinone” dell’ex Cavaliere, Giovanni Toti.

Sostiene Paita: «Le larghe intese in Liguria non ci saranno mai. Non ci saranno perché non ho niente da spartire con Salvini, Berlusconi, Toti e Belsito», quest’ultimo tesoriere e personaggio cardine dell’inchiesta che ha portato a picco la Lega di Bossi. E ancora, la candidata Pd: «Non ho niente da spartire con gli xenofobi. Non ho niente da spartire con l’estrema destra».

La puntualizzazione si è resa necessaria dopo aver dato un’occhiata agli ultimi sondaggi.

Le liste del Pd dovrebbero superare il 35% per avere una maggioranza sicura di 16-18 consiglieri e non dover chiedere i voti agli altri gruppi. Gli ultimi sondaggi, ammesso che facciano centro, raccontano di un testa a testa Paita-Toti, con un paio di punti di scarto a favore della candidata, ma comunque sotto il 35%.

Ecco dove nasce l’ipotesi delle larghe intese. «Con l’assessore alle alluvioni? Non esiste», taglia corto Toti.

Così la storia sembra finire e sicuramente nessuno la confermerà fino al primo giugno, a urne chiuse.

Ora l’argomento va liquidato e allora, prima di parlare di “anticorruzione e antimafia”, deve intervenire sul tema spinoso anche il ministro Orlando. Il quale, pare giusto ricordarlo, ha appoggiato l’avversario della Paita nelle contestatissime primarie (Sergio Cofferati) e dopo il voto delle consultazioni interne sembrava una possibile soluzione alternativa: candidare Orlando in Liguria forse avrebbe messo d’accordo almeno il Pd. Niente, avanti con la Paita. Così il ministro si adegua e ora spiega: «Non si capisce bene chi critica un’eventuale non autosufficienza del centrosinistra e del Pd poi lavori per far vincere il centrodestra».

Orlando non li cita, ma ce l’ha con il candidato Luca Pastorino (appena uscito dal Pd) e con il vicepresidente della giunta regionale Claudio Montaldo. Lui è rimasto nel partito, ma ha lanciato il manifesto dei 200, proponendo il voto disgiunto: Pastorino presidente e voto di lista al Pd.

«Tira una bruttissima aria», dice uno dei sessantatré militanti e non è neppure l’ultimo arrivato. Come dargli torto. Eppure c’è chi sorride ottimista, come il segretario genovese Alessandro Terrile: «Ma no, alla fine vinciamo e con il listino prendiamo altri sei consiglieri. Così arriviamo a 15 e al massimo ce ne mancano un paio. Da qualche parte li troveremo».

Per ora non si capisce dove e con quale intesa. L’ipotesi va da Toti a Pastorino, ma così la larghezza cambia e non di poco. Ma comunque Pastorino nega: «Non faremo mai la stampella di Paita».