Creare ponti tra le culture, superare confini socio-politici, unire passato e presente: ecco cosa vuole suggerire il museo etnografico Rautenstrauch-Joest di Colonia con la sua installazione permanente che si estende nelle grandi aree del primo e del secondo piano. Aperto nel 2010 nella nuova sede situata nel Kulturquartier, il quartiere culturale nel cuore della città sul Reno, già due anni dopo ricevette il Prix du Musée du Conseil de l’Europe, massimo riconoscimento politico-culturale per un museo europeo che consiste in una piccola scultura in bronzo di Joan Mirò, del 1969, Femme aux beaux seins, offerta dallo stesso artista. L’essenziale ed esigua silhouette femminile dai seni specularmente concavi e convessi con un volto astratto esprime al meglio ogni genere di contaminazione. Istituito nel 1977, il premio-scultura rimane esposto per un anno nel museo premiato per poi viaggiare verso quello scelto per l’anno successivo. Nel 2014 era in Turchia, al Baksi Müzesi, quest’anno risiede al MuCEM a Marseille, il nuovissimo Museo per le Civiltà Europee e Mediterranee aperto due anni fa quando la città di mare fu capitale europea della cultura. In Italia il Premio del Consiglio Europeo c’è stato un’unica volta finora, nel 1993, al Museo delle Valli ad Argenta in Emilia-Romagna. Il motivo principale per cui il Museo Rautenstrauch-Joest aveva colpito la giuria era lo stimolo alla Selbstreflektion – nel suo doppio significato di «riflessione su se stessi» e «riflessione nel mondo» – nel percorso espositivo: si invita a riflettere a partire dai propri valori socio-politico-culturali sui valori presentati qui e scelti come vettori di quelli che si desidera essere i valori di base europei. Come sono riusciti i curatori a creare questa panoramica? Il progetto è stato elaborato dall’Atelier Brückner, esperto in lavori interdisciplinari e già autore di numerose altre mostre: qui il filo rosso è il principio che le tante culture di questo mondo sono diverse nella loro uguaglianza e/o uguali nella loro diversità. Si è scelto di focalizzare alcuni temi macro per vedere come li vivono/affrontano/incontrano le popolazioni nelle varie aree geografiche, tutti legati all’essere umano nel proprio mondo. Il percorso si snoda attorno ai due concetti: die Welt erfassen e die Welt gestalten, dove il primo sta per percepire il mondo – nel senso di sconfinare, contaminare, esprimere pregiudizi, arti e cultura museale, e il secondo per creare il mondo – nel senso di abitare, vestirsi e indossare gioielli, la morte e l’aldilà, le religioni e i rituali. I font usati per scrivere i vari titoli dei passaggi da una all’altra sezione esprimono già di per sé significati emotivi: ad esempio un bold pesante per Morte e Aldilà, un giocoso corsivo leggero per Abitare. Non manca lo sguardo critico, però, tenendo sempre d’occhio l’incontrarsi con e l’appropriarsi di – l’altro da sé. «La scienza è la ragione del mondo, l’arte è la sua anima», aveva scritto Maxim Gorkij.
Entrata e uscita di questo viaggio multi-sensoriale sono rispettivamente segnate dai più diversi rituali di benvenuto e di congedo messi in scena nelle tante lingue e culture in brevissimi filmati che scorrono su una parete che funge da schermo. Sono intervallati da proverbi e aforismi, le cui scritte «cadono» verso il basso, sbriciolandosi nelle singole parole e lettere, come a voler significare con leggerezza e ironia i mattoni con cui ognuno di noi crea (e potrebbe altrettanto disfare) immagini e pregiudizi mentali. Si va dall’ebraico «accolti a giudicar dall’abito, congedati secondo il grado di intelligenza» a quello tuareg «per tener uniti i cuori, meglio separare le tende». Dal settore dedicato alle arti con dipinti e sculture si passa alle forme di vita e agli spazi dell’abitare, nelle cui regole di utilizzo non di rado si rispecchiano i ruoli ricoperti nelle rispettive società dall’uomo e dalla donna. Per esempio, c’è una casa per soli uomini del secondo Novecento dalla Guinea Occidentale o una tenda tuareg proveniente dal Niger, sempre dello stesso periodo. La sezione più affascinante è Il corpo come palcoscenico: abiti e gioielli, costruita paradigmaticamente in espansione. Come un cd-rom: da «menù» funge una pedana centrale con numerosi manichini bianchi, dotati di pochi oggetti simbolo che segnalano i sotto-argomenti, a loro volta sviluppati dettagliatamente in chiave etnografica nei singoli spazi rifiniti nell’enorme area con l’uso di strisce di stoffa leggera che fanno da «quinte». Per esempio: il manichino segnato «uomo/donna» veste una farfalla nera e una collana di perle al collo, sul lato sinistro ad altezza seno è disegnato un contorno a mo’ di top, sul lato destro spicca il triangolino di un fazzoletto rosso che sbuca da un taschino abbozzato con un paio di cuciture, ad altezza vita c’è una cintura e un paio di bottoni da giacca elegante. Nello spazio Uomo/Donna sono esposti abiti femminili e maschili provenienti da Africa, Sudamerica, Oceania, Polinesia, Indonesia e l’isola di Bali. Lo stesso vale per Potere e religione, il cui manichino porta simbolicamente una stola di pelliccia preziosa e una collana d’oro, mentre Magia e religione è segnato da un colletto da prete, una collana con croce, bottoni in velluto viola e una stola nero-rossa. Interessante la combinazione per Guerra e Cacciatori di teste: bottoni di uniforme e medaglie cucite su un corpo-base femminile. ei Mondi di mezzo s’indagano i più diversi rituali, dal culto delle maschere in Malaysia (posizionate ad altezza occhi davanti a uno specchio per possibili interazioni) alle maschere veneziane del XVIII secolo, usate sia per il carnevale sia in altre occasioni per trasgredire regole o annullare divergenze sociali. Fu soltanto Napoleone, nel 1797, a riuscire a imporre il divieto d’uso, annullato negli anni ottanta del secolo scorso per far rinascere il classico carnevale veneziano in un periodo «morto», turisticamente parlando. Per rituali non s’intendono solo quelli che vediamo nei video-documenti realizzati nel Burkina Faso su come onorare la fertilità di donne e terreni (dove le maschere per gli iniziati rappresentano i principi morali di una società) o nello Sri Lanka su alcune pratiche di guarigione. Un programma interattivo da computer ci fa conoscere meglio i rituali occidentali: quelli del potere, di interazione socio-politica, quelli dettati dai calendari e/o dai cicli di vita. Per esempio, l’abbraccio tra Nicolas Sarkozy e Angela Merkel a confronto col baciamano di Chirac per la stessa cancelliera tedesca, o la parata militare sulla Piazza Rossa del 1945 con l’incoronazione della Regina d’Inghilterra nel 1953. Nell’enorme luminosissima hall fa da padrone un barcone di paglia, meravigliosamente adornato: un deposito per il riso che proviene da Tana Toraja sull’isola di Sulawesi in Indonesia. Datato 1935, alto sette metri e mezzo, è il simbolo del nuovo Rautenstrauch-Joest-Museum, il cui nome risale ai cognomi di chi aveva contribuito a crearlo: innanzitutto Wilhelm Joest, geografo e antropologo, il cui fondo di 3400 oggetti fu donato al Comune di Colonia dalla sorella che – sposata in Rautenstrauch – dopo la morte del marito aveva donato anche la somma di 250mila marchi (cospicua ai primi del Novecento) per costruire il primo edificio, aperto nel 1906 più ai margini del centro città. Oltre 65.000 oggetti in totale presenti al giorno d’oggi, con derivazione dall’Oceania, dall’Africa, le due Americhe e l’Asia ne fanno una delle dieci più grandi collezioni esistenti in Germania.