Dopo un film sull’ebbrezza della religione del capitalismo, un film sul tormento di quella di Cristo. Da quello che era stato descritto come «l’equivalente stilistico di un mix di cocaina e Viagra» a una serie di austeri, dolorosissimi, tableaux vivents impregnati dei neri abissali della fotografia di Rodrigo Prieto e delle lacrime di sofferenza dei martiri. Dall’energia febbrile dei cartoni animati, ad Akira Kurosawa filtrato da Goya.
Martin Scorsese approda al progetto che voleva realizzare da trent’anni, un Cuore di tenebra annidato nel Giappone del XVII secolo, durante le purghe religiose contro i missionari cristiani e i loro adepti. Silence è l’adattamento (firmato da Scorsese e Jay Cocks, con cui aveva scritto anche Gangs of New York e L’età dell’innocenza) del romanzo dell’autore cattolico giapponese Shusaku Endo.
Il film comincia a Lisbona. Il Kurtz della storia è (una figura realmente esistita) padre Ferreira (Liam Neeson), missionario gesuita scomparso da anni in Giappone che, si dice, dopo essere stato torturato duramente avrebbe rinnegato la sua fede convertendosi al buddismo e sposando una donna giapponese. Rifiutando di credere a queste informazioni, arrivate dalle descrizioni di sconosciuti in una lettera consegnata da terzi, padre Rodrigues (Andrew Garfield) e padre Garrpe (Adam Driver) chiedono al confessore Valignano (Ciaran Hinds) il permesso di cercare il loro maestro.

 

 

 
Le persecuzioni  contro i cristiani in Giappone hanno raggiunto livelli intensissimi e, per entrare nel paese, Rodrigues e Garrpe devono ricorrere a un passaggio clandestino in barca, dalla Cina, affidati alle mani inaffidabilissime di un giovane giapponese, fragile, stracciato e ubriaco, Kichijiro (Yosuke Kubozuka) – cristiano perseguitato e torturato dagli inquisitori dello Shogun, che però vuole tornare in patria.
Fatti frettolosamente sbarcare di notte, su una spiaggia di sassi neri, i due sacerdoti vengono subito abbandonati dalla loro guida. Gli occhi accesi di una paura febbrile e inscrollabile, gli scatti nervosi, improvvisi, di un animale abituato alle botte e agli stenti, Kichijiro è il Giuda del film – un peccatore che si pente, chiede perdono e viene assolto, solo per peccare di nuovo. La sua solitudine, la sua viltà, la sua vergogna sono una delle grandi emozioni (religiose) di Silence, specialmente nella prima parte in cui è il dilemma di Kichijiro, non quello «alto» dei sacerdoti, a cui ci si sente vicino, ancor di più dello strazio dei martiri.

 

 

 
Accolti da un gruppo di contadini poveri, che li nascondono, Rodrigues e Garrpe uniscono intorno a sé una congregazione di fedeli; pazzi di gioia al solo contatto fisico con il grano di un rosario o la scheggia di una croce improvvisata malamente. Ma quando la voce della loro presenza giunge agli sgherri dell’inquisizione, gli abitanti del villaggio (tra cui il grande regista giapponese Shinya Tsukamoto) vengono prima costretti a rinnegare la fede, calpestando un’immagine di Cristo o della Vergine, e poi torturati e uccisi, per stanare i gesuiti -fino a una scena di crocifissione sul mare di bellezza e crudeltà devastanti.

 

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Tra i due sacerdoti, Garrpe è quello più sicuro del suo percorso, tristemente sereno, mentre Rodrigues (con Garfield qui meno convincente che nei panni dell’obiettore di coscienza di Hacksaw Ridge) è pieno di domande. Come è possibile che Dio rimanga impassibile di fronte a tutto questo dolore? E il silenzio del titolo, è quello con cui Gesù -al quale il giovane sacerdote si rivolge direttamente, scoprendo il volto di Cristo nella sua immagine riflessa nell’acqua – risponde alle sue richieste.
Se, come ha detto Scorsese più volte, questo è un film che voleva fare già da quasi trent’anni, è facile vedere la battaglia interiore di Rodrigues, i suoi dubbi, come un’evoluzione, o uno sviluppo, di quelli che agitavano il Cristo/Willem Dafoe, di The Last Temptation of Christ (1988), il contestatissimo Vangelo secondo Scorsese, boicottato all’uscita Usa, nel 1988 – così come in Italia. Da allora a oggi, il regista di The Wolf of Wall Street e Goodfellas è tornato sulla religione (la sua vocazione da ragazzo, prima del cinema) più volte, in modo diretto, in Kundun, e indiretto, ma altrettanto profondo, in Bringing Out the Dead, tutt’ora uno dei suoi film più belli e «cattolici».

 

 
Forse inevitabilmente, dalla prima lettura del libro di Endo, con gli anni, e i film, è come se Scorsese avesse già superato, se non proprio risolto, alcuni dei quesiti del protagonista di Silence che lo avevano così coinvolto da giovane. Infatti, nonostante la bellezza delle immagini, il film decolla veramente solo nella sua seconde parte, quando Rodrigues viene catturato, imprigionato e messo a confronto diretto con il grande inquisitore Inoue (Tabadanobu Asano). In un nascondino tra gatto e topo, coreografato magnificamente, Scorsese inizia qui la conversazione sulla religione che sembra veramente interessarlo oggi. Una conversazione che spazia dai temi del colonialismo all’arroganza dei «puri» e che avrà – nel bellissimo incontro tra Rodrigues e Ferreira – e nell’ultima immagine del film – la cristallizzazione perfetta del punto d’arrivo di un percorso lungo trent’anni.