Misurare una distanza su una mappa che non è solo geografica: un possibile punto di partenza per parlare di Here and Elsewhere (fino al 28 settembre), la grande mostra newyorkese dedicata agli artisti arabi contemporanei, curata da Massimiliano Gioni insieme al team curatoriale del New Museum: Natalie Bell, Gary Carrion-Murayari, Helga Christoffersen e Margot Norton. La distanza tra Gaza e Gerusalemme, ad esempio, o tra Ramallah e Gerusalemme, ma anche fra Tangeri e Cadice, Damasco e Parigi, Teheran e Dubai, Cairo e Amman, Beirut e New York, Baghdad e Berlino. Individui, numeri, dati, storie che si ripetono e di cui ci parlano anche Yto Barrada, Basma Alsharif, Kader Attia, Bouchra Khalili, Wael Shawky, Rana Hamadeh, Rokni Haerizadeh, Marwa Arsanios, Hrair Sarkissian, Jamal Penjweny, Ahmed Mater. Quarantacinque artisti, appartenenti a più generazioni e provenienti da quindici paesi, che mettono in discussione la «verità» dell’immagine ufficiale, proponendo una visione soggettiva consapevole dei propri limiti, ma anche delle possibilità di una narrazione aperta.
Partendo dalla citazione del film-documentario Ici et ailleurs (1976) di Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Gorin e Anne-Marie Miéville che dà il titolo alla mostra, tra le tante storie diventa più impellente il focus sulla Palestina, tanto più se si pensa al presente dell’eccidio di civili palestinesi a Gaza con l’operazione militare israeliana «Bordo protettivo» (considerando anche i dieci anni d’impotenza dalla sentenza di illegalità del Muro di separazione in Cisgiordania dichiarata dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja).

TRACCE E MEMORIA
Nell’intero edificio sulla Bowerie gli artisti traducono le emergenze che vivono in prima persona, tra nomadismo culturale, guerra civile, diritti umani, emancipazione femminile, quotidianità, identità, memoria, senza inciampare nella visione stereotipata postorientalista.
Per molti di loro, l’arte è una pratica di resistenza. Lo è sicuramente per Abounaddara, collettivo siriano di filmmaker creato nel 2011 per consegnare una qualche visibilità alla gente comune. I protagonisti non sono né vittime né eroi, come ha spiegato il portavoce Charif Kiwan in conferenza. Persone che combattono per la libertà, recitando se stesse in silenzio in uno scenario che, visto soprattutto all’esterno, ha i riflettori puntati solo su due attori: il presidente Bashar al-Assad, «un gentlemen educato e sorridente che è un criminale» e i jihadisti. Tra i loro video più recenti, sono esposti anche Marcell e The student. «Proviamo ad ascoltare le persone mantenendo l’anonimato – afferma Kiwan parlando di «emergency cinema» – Siamo tutti volontari, non abbiamo fondi, lavoriamo come i medici che, senza strumenti, si trovano a intervenire dopo un incidente. Facciamo girare i nostri film via internet, questo vuol dire che non possiamo venderli, né potrebbero partecipare ai festival». Malgrado ciò, anche se i primi corti di Abounaddara non erano neanche sottotitolati, sono stati selezionati da diverse rassegne internazionali ed è arrivato anche l’importante riconoscimento dello Short Film Grand Jury Prize al Sundance Film Festival 2014.
L’artista visiva Lamia Joreige (Beirut, 1972) parla, invece, di «performance della memoria» in relazione alla guerra civile in Libano. Nella serie Object of War, che porta avanti dal 2000, prende le distanze emotive dagli oggetti in sé, indagando sulla potenzialità mnemonica di quella che definisce «una sorta di archeologia della guerra». La «grande storia» è fatta di tante «piccole storie» che coinvolgono i più: ascoltare il vissuto della gente, percepire le loro emozioni diventa un modo per ridefinire i propri ricordi personali. A partire dalla visione frammentaria che ha di Beirut, ricomposta in una cartografia urbana. Joreige ricorda, in particolare, come la città fosse divisa i due zone, Beirut Ovest e Beirut Est. I checkpoint erano luoghi pericolosissimi: sono passati di lì i diciassettemila civili di cui si sono perse le tracce. Altre tracce della guerra civile sono documentate del resto nelle foto che il reporter libanese Fouad Elkoury (Parigi, 1952) ha realizzato nel 1982 durante l’invasione israeliana del Libano e nel ’91 facendo parte del progetto collettivo internazionale con Gabriele Basilico, René Burri, Raymond Depardon, Robert Frank e Josef Koudelka.

OLTRE LE BARRIERE FISICHE
Ma torniamo al concetto di resistenza, sottolineato soprattutto dall’artista palestinese Khaled Jarrar (Jenin 1976) che parla in diretta skype da Ramallah. Era prevista la sua presenza a New York per l’inaugurazione di questa mostra, nonché della sua personale No exit da Whitebox Art Center (24 luglio-7 agosto) ma, mentre era diretto in Giordania per raggiungere l’aeroporto di Amman, è stato fermato al posto di blocco isreliano al valico di Allenby e rimandato indietro per «ragioni di sicurezza». «Per noi la resistenza è esistere», ha dichiarato Jarrar. Lo affermano anche le mani di due donne anziane che si sfiorano attraverso la fessura inferiore del muro di cemento che ha separato le loro case, le loro famiglie, le loro vite. Nel lungo video Infiltrators (2012) le loro voci che superano la barriera fisica, il modo in cui trasmettono vicendevolmente il dolore della separazione, rievocano altre tragedie: altri luoghi, tempi, situazioni. Nei settanta minuti del film vediamo scorrere diverse immagini di ingiustizia e umiliazione, ma anche di ricerca di fuga. L’artista entra nella storia, come la gente che osserva, ascolta. «Mi rifiuto di morire in silenzio», afferma.
Racconta le contraddizioni del vivere la quotidianità nei Territori Occupati anche Tanya Habjouqa (Amman, 1975) con Tomorrow there will be apricoats (2012-2013), un lavoro fotografico in cui si conferma quel sottofondo umoristico che caratterizza altri suoi lavori come la nota serie Women in Gaza (2008). Habjouqa è membro fondatore di Rawiya, primo collettivo fotografico al femminile del Medio Oriente ed è vincitrice del World Press Award 2014 nella sezione «Daily life».
Ma non c’è solo fotografia e video: la mostra Here and Elsewhere include sculture, collage, disegni, e dipinti, tra cui i paesaggi astratti di Etel Adnan (Beirut, 1925), notissima poetessa, scrittrice oltre che pittrice (in Italia ha pubblicato anche Viaggio al Monte Tamalpais, Crescere per essere scrittrice in Libano e Nel cuore del cuore di un altro paese);i fumetti dell’artista e musicista Mazen Kerbaj (Beirut, 1975); le grate azzurre delle «mashrabiye»tracciate con l’inchiostro da Susan Hefuna (Cairo, 1962) con un richiamo alle strutture organiche o il video d’animazione The Purple Artificial Forest (2005) di Amal Kenawy (Cairo 1974-2012), in cui affiorano emozioni di paura, ansia, vulnerabilità.
Parlando di installazioni, è difficile non rimanere coinvolti dall’operazione con cui Akram Zaatari (Saïda, 1966) introduce al concetto di archivio e memoria. In un gioco di rimandi che è prima di tutto personale, l’artista libanese rende omaggio al suo mentore, il fotografo Hashem El Madani (Saïda, 1930). Nella videoinstallazione Twenty Eight Nights: Endnote (2014) vengono inquadrati loro due, occupati a guardare lo schermo di un laptop. Un fascio di luce taglia l’oscurità dell’ambiente che li accoglie, lo Studio Sheherazade (descritto più analiticamente nella serie fotografica Objects of Study/ Studio Sheherazade – Reception Space del 2006). Poi entrano luci colorate, rosse e blu, che diventano sempre più presenti, danzanti. Negli anni Novanta, durante la sua ricerca, recupero e documentazione degli archivi fotografici libanesi Zaatari, co-fondatore dell’Arab Image Foundation di Beirut, nonché l’artista che con Letter To A Refusing Pilot ha rappresentato il Libano alla 55/ma Biennale di Venezia, ha scoperto le fotografie di El Madani, attivo già negli anni Cinquanta.
Il suo studio era un punto di riferimento nella città portuale di Saïda e nei suoi ritratti si possono leggere le ambizioni, i sogni, anche i limiti e i tabù della società libanese negli ultimi cinquant’anni. Atteggiamenti e mode che si materializzano in bianco e nero, come i baci casti tra ragazze o ragazzi, ad esempio, ma non tra persone di sesso diverso. Anche questa serie di foto stampate ai sali d’argento è esposta al New Museum. Non c’è, invece, il ritratto di Madame Baqari. Una giovane donna che negli anni Cinquanta ha osato farsi fotografare senza il permesso del marito geloso. Un atto di «ribellione» che, qualche mese dopo, la portò al suicidio.