Andando in giro per l’East Village capita spesso di incontrare Kim Jones (San Bernardino, California 1944). Da Pierogi, una delle gallerie storiche di Williamsburgh, si è conclusa da poco la sua personale Mountain girl door che ripercorreva il lavoro di Jones, conosciuto anche come Mudman (l’uomo-fango). Una «scultura che cammina» che sintetizza disegno, scultura, pittura, installazione e performance,ispirata alla forma delle mappe stellari dell’Oceania e realizzata con fango, gommapiuma, filo di ferro, garza, nylon, lattice, bambù. «Alla fine della scuola ho iniziato conoscere il lavoro di Eva Hesse e degli artisti viennesi dell’Azionismo, tra cui Nitsch. Mi interessavano molto anche Vito Acconci, Bruce Nauman, Chris Burden ed ero quasi ossessionato dai Codici degli Aztechi. Mudman nasce nel 1974: ho iniziato a portare queste sculture come se fossero uno zaino. Mi facevo fotografare dalla mia compagna di allora, o da amici, sul tetto del mio studio a Venice, in California, e qualche volta per strada, perché a quei tempi a Los Angeles non c’erano molte opportunità per esporre il proprio lavoro», ricorda Jones. Lui è un artista visionario alla maniera tradizionale: vive l’arte come un’esigenza di confronto con il mondo esterno, ma anche di contestazione e affermazione di lotta civile. Una guerra personale che porta avanti fin da bambino, quando per una grave malattia fu costretto a una lunga immobilità. In quegli anni, libri e fumetti, insieme alla pratica del disegno hanno rappresentato una via di fuga. Alludono al cambiamento anche i war drawings – uno dei quali è esposto al SantaBarbara Museum of Art nella collettiva Left Coast: Recent acquisitions of contemporary art (fino al 14 settembre) – con il processo del disegnare, cancellare e ridisegnare che esprimono l’idea dell’artista di creare il tempo e il movimento.

I fumetti, in particolare quelli di Walt Disney, hanno stimolato la creazione di un mondo da tenere sotto controllo. Guardando i «war drawings» che si espandono in «Doll House», nei trench e nelle scarpe, sembra che lei non abbia mai smesso di giocare…

Sì, gioco sempre. Tra i sette i dieci anni ho avuto una malattia degenerativa della testa del femore che si chiama Perthes. Per tre mesi sono stato in ospedale, in trazione, poi sulla sedia a rotelle e con le stampelle e il tutore a entrambe le gambe, finché non sono stato dimesso. Soprattutto quando ero in ospedale, ma anche dopo a casa, ricordo che me ne stavo seduto sul letto a creare un mondo tutto mio, leggendo fumetti tipo Little Lulu. Invece di uscire fuori per giocare a baseball, me ne rimanevo in solitudine a dar vita al mio mondo.
Anche i war drawings sono cominciati con l’influenza dei fumetti anni ’50 con quel loro punto di vista di un’America ideale, come nella Nelson Family del programma televisivo Ozzie and Harriet. Negli anni ’60, poi, avevo letto Flatland, il romanzo scritto da Edwin Abbott Abbott alla fine dell’Ottocento che parla di un mondo abitato da triangoli, quadrati e cerchi. Ad un certo punto, nel romanzo viene scoperta la tridimensionalità: gli alti prelati sono i cerchi, gli operai sono i quadrati, i soldati triangoli equilateri e le donne triangoli isosceli. Ho adottato queste forme all’interno dei miei disegni: se non si è artisti il concetto della bidimensionalità è molto difficile da intendere. I war drawings sono totalmente bidimensionali. Non mi interessa l’estetica quando li realizzo, il punto è dove sono localizzati gli elementi. Li cancello e ridisegno per creare l’illusione del movimento e del tempo. Nella mia mente i disegni sono vivi.

Dai giochi di guerra a quella vera a Dong Ha (Vietnam), che lei ha combattuto dal 1966 al ’69…

Mio padre mi aveva detto che avrei dovuto cercarmi un lavoro perché non poteva mantenermi, nel frattempo ero stato dichiarato abile al servizio militare con il massimo punteggio. Nei marines sono stato trattato come un figlio. Ma non avevo idea che fosse il corpo più tosto. Durante la prima notte nel campo d’addestramento, mi sono subito reso conto di aver fatto uno sbaglio enorme.
Il 1 gennaio 1966 sono stato mandato in Vietnam. Da San Diego siamo arrivati alla base navale di Okinawa, da dove siamo partiti a bordo di piccole navi dirette a Dong Ha. Arrivati alla base un gruppo è stato mandato subito dall’altra parte del fiume, verso nord. Questo è avvenuto qualche giorno prima dell’Offensiva del Têt. I vietnamiti erano di fronte a noi, con i carri armati, ma quando si è giovani non ci si rende conto del pericolo.

Nel suo lavoro l’olfatto ha un ruolo importante, a volte, anche piuttosto scioccante..

Fa parte dell’esperienza. Quando ho bruciato tre ratti maschi che erano vivi è stato un gesto radicale: sto facendo un esempio estremo. Una cosa, infatti, è parlare di uccisione, un’altra è assistere dal vivo alla morte atroce di animali bruciati vivi. Sentire l’odore della morte. È stato molto difficile, ma volevo consegnare al pubblico quell’esperienza. All’audience spettava la scelta di andare via, come ha fatto metà della gente, ma avrebbe anche potuto intervenire per fermarmi. Con tutta la scultura di pezzi di legno e fango che portavo addosso ero mal coordinato, avevo scarsa visibilità e di movimento, perché il mio viso era coperto. Chiunque mi sarebbe potuto venire addosso e mi avrebbe potuto buttare giù, fermarmi in qualche modo, ma nessuno lo ha fatto nessuno. E io ho dato loro l’odore della morte, che è molto particolare e diverso da qualsiasi altro.

Ha citato la controversa performance del ’76: quali sono state le sue conseguenze?

In Vietnam il nostro campo era invaso dai ratti, per dormire dovevamo coprirci anche la testa. Mettevamo le trappole e dopo aver catturato i ratti gli davamo fuoco con la benzina degli accendini. Era un passatempo. Ma quando, nel ’72, mentre frequentavo il corso di scultura all’Otis Art Institute ho comprato dei ratti e li ho bruciati, filmandoli, volevano buttarmi fuori dalla scuola… Negli anni successivi ho sempre provato a proporre questa performance estrema, ma anche negli spazi alternativi, quando ne parlavo, nessuno era d’accordo. Finché nel ’76 Frank Brown, che gestiva la galleria Cal State L.A., mi invitò a realizzare una performance. Non volle sapere nulla di ciò che stavo per fare. L’azione è stata documentata con un video in bianco e nero. Nessuno è intervenuto durante la performance. Dopo, però, sono usciti articoli su vari giornali, incluso quello universitario ed è nata una grande polemica.
Sono stato arrestato con l’imputazione di tre atti di crudeltà, uno per ogni ratto, e sono stato costretto a prendere un avvocato difensore. Davanti alla corte ho dichiarato di non contestare l’accusa. Il mio avvocato mi ha difeso sostenendo che anche la città di Los Angeles ammazza i topi. Il punto fondamentale è che il ratto è tra l’animale domestico e la bestia nociva. Per questo sono stato condannato in sospensione, con una cauzione di 130 dollari e la condizione di non possedere animali domestici e non uccidere ratti per due anni…