L’ultimo romanzo di Siri Hustvedt, A Blazing World – non ancora pubblicato in traduzione italiana – ha come protagonista una donna che, dopo una breve e insoddisfacente carriera come artista a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, decide di abbandonare l’arte per vivere all’ombra del marito gallerista. Sarà soltanto dopo la morte di quest’ultimo che tornerà a esporre, questa volta nelle più importanti gallerie di New York, costretta però a nascondere la propria identità dietro a pseudonimi maschili.
Il romanzo, che ripercorre la vita e le scelte di questo personaggio fittizio attraverso una serie di testimonianze di familiari, amici, conoscenti, studiosi e critici d’arte, compone un affresco variegato della vita della donna, mettendo in evidenza, tra le altre cose, il privilegio maschile che ha un peso così determinante nelle strutture del riconoscimento del mondo dell’arte. Nel romanzo, infatti, la maschera maschile adottata dalla protagonista si configura come un viatico per il successo che non si limita soltanto a dissimulare l’identità femminile dell’artista, ma le serve anche per riposizionare il proprio lavoro sulla linea della differenza sessuale.
Il romanzo affronta con acutezza e senza fornire facili risposte la questione dei meccanismi di inclusione e di esclusione che permeano una sfera di attività ancora così fortemente sorretta da pregiudizi e idee preconcette. I criteri del riconoscimento e del successo nell’arte sono tutto fuorché neutri o universali, come messo in evidenza sin dai primi anni settanta da un numero importante di artiste, critiche e storiche dell’arte.

Il celebre pamphlet di Linda Nochlin, Perché non ci sono state grandi artiste?, pubblicato per la prima volta nel 1971 nella rivista Art News e ora ritradotto in italiano in forma di libretto per i tipi della Castelvecchi, sollevava la questione del sessismo culturale, imponendosi come il testo fondatore della critica femminista alla storia dell’arte (Linda Nochlin, Perché non ci sono state grandi artiste?, traduzione di Jessica Perna, Roma, Castelvecchi, pp. 92, euro 12).
Linda Nochlin è una delle storiche dell’arte più influenti e significative della sua generazione, nota in Italia soprattutto per il suo studio sul Realismo, molto meno per lo sguardo femminista che caratterizza la maggior parte della sua produzione, che spazia dallo studio della pittura francese dell’Ottocento fino alle recenti indagini sul femminismo nell’arte più contemporanea, al centro della mostra Global Feminism, da lei co-curata nel 2007 per il Brooklyn Museum di New York.

La riedizione di questo saggio è dunque particolarmente benvenuta in un contesto, quello dell’accademia italiana, che soltanto in anni recenti si sta faticosamente aprendo alle questioni femministe.
Come sottolinea Maria Antonietta Trasforini nella prefazione del libro, questo saggio venne tradotto in italiano già nel 1977 nella raccolta La donna in una società sessista, edita da Einaudi, a fianco di una serie di testi per lo più legati alle scienze sociali, cosa che aveva reso eccentrica la sua presenza, che infatti passò quasi inosservata, almeno per quanto riguarda il campo degli studi storico-artistici.
Perché non ci sono state grandi artiste? è una domanda provocatoria che rende esplicito il pregiudizio sessista che attraversa la storia dell’arte. Si tratta di un saggio che non cesserà di essere discusso criticamente negli anni successivi alla sua prima pubblicazione, proprio perché pone le basi per una critica interna alla storia dell’arte che era , all’epoca, del tutto nuova.

Per Linda Nochlin, la storia dell’arte non è neutra dal punto di vista del genere: è necessario abbandonare la torre d’avorio della sua autoreferenzialità, per cominciare a leggere l’arte nel quadro della complessità dei rapporti sociali, dei suoi diversi contesti storici e culturali e attraverso il suo coinvolgimento con l’ideologia. La pubblicazione di questo saggio va ricollocata infatti in quel momento storico caratterizzato dalla contestazione a tutto campo delle strutture del sapere.

In questo senso, la ricerca femminista nel campo della storia dell’arte mostra fino a che punto un movimento che ambiva ad un rivolgimento totale dei rapporti tra i sessi abbia potuto mettere in questione le fondamenta di una disciplina accademica. È stato l’emergere di un movimento delle donne a rendere visibile il sessismo presente all’interno delle istituzioni artistiche e il modo in cui l’attività delle donne è stata esclusa dai processi di valorizzazione, per essere per lo più relegata e diminuita nel quadro di un sistema di valutazione sessista.
Perché le donne sono così fortemente sotto-rappresentate nelle istituzioni artistiche? Perché le artiste storicamente non hanno avuto la stessa carriera dei loro colleghi uomini?

La domanda che fornisce il titolo al saggio è, da questa prospettiva, una sorta di avvertimento rispetto agli interrogativi: il punto, scrive Nochlin, non è quello di andare alla ricerca di una improbabile «Michelangelo donna», ma di interrogarsi ciò che determina la grandezza in campo artistico.
La ragione dell’assenza delle donne dalla storia dell’arte deve essere ricercata nelle condizioni di accesso al mestiere stesso di artista, nel carattere sessuato della formazione, nella persistenza di una serie di pregiudizi che riguardano il significato dell’arte e il suo ruolo nella società.
La domanda «perché non ci sono state grandi artiste?», spiega Nochlin, è capziosa proprio perché sottintende tali pregiudizi, dissimulando quello che è invece il nocciolo della questione: il mito del grande artista, il cui genio, «inteso come una forza astorica e misteriosa» viene rappresentato come un’essenza che si può o meno possedere, indipendentemente dalle condizioni storiche e materiali in cui agiscono i soggetti.
La mancanza di riconoscimento di cui soffrono le artiste non è da attribuire a caratteristiche individuali, ma a una serie di pregiudizi istituzionali e discorsivi che hanno di fatto ostacolato l’espressione artistica delle donne.