Se pur tardiva, prosegue da qualche anno anche sulle nostre scene la conoscenza carnale del teatro di Angélica Liddell. E l’aggettivo non deve sembrare improprio giacché, come pochi altri, il lavoro dell’artista catalana appare intriso di umori corporei, di una fisicità che a tratti diventa esplosiva, buttata senza vergogna in faccia allo spettatore. Ma che poi serve da innesco a un viaggio verso zone molto più intime. Performer e autrice nel senso più completo dei suoi spettacoli, come l’Alice del reverendo Lewis Carroll da cui ha tratto il nome d’arte Liddell precipita ogni volta al di là di uno specchio, in un mondo sotterraneo popolato da figure ai confini del sogno o dell’incubo ma che proprio quella fisicità porta sul piano della vita.

Che tutto questo la qualifichi come trasgressiva o magari giustifichi impropri accostamenti con un artista considerato altrettanto scandaloso qual è Rodrigo Garcia, fa parte di una lettura pigra e superficiale. Siamo, è chiaro, dalle parti di un’arte che crea un proprio mondo di cui ignora ancora le regole e forse la stessa esistenza, indifferente al problema della rappresentazione – e che richiede dunque un ascolto diverso da quello che serve per riconoscere ciò che è familiare.

18liddellMODENA

In questi giorni sono state due le occasioni di vedere all’opera la sua compagnia Atra Bilis, e si aggiungono al passaggio estivo ad Asti con uno scatenato concerto di canzoni latine che anticipava qualcuna delle immagini di You are my destiny, presentato ora a Modena per il festival Vie. All’origine della scrittura scenica c’è Lo stupro di Lucrezia, il poemetto di Shakespeare che riprende la vicenda che condanna l’ultimo re di Roma, la violenza commessa sulla più casta delle dame romane che per questo sceglie di uccidersi, e vi compaiono anche Tito Livio e la Lucrezia di Haendel, O numi eterni. Ma soprattutto c’è lei, l’artefice, che la proietta in una Venezia magica e dagli umori vagamente malsani, ai confini con l’oriente, sarà anche l’iconografia che sembra uscire da un film di Paradzanov o la suggestione degli interventi vocali di tre cantori ucraini che appaiono su una balconata a spezzare il ritmo dell’azione, quando potrebbe andare fuori giri. Per niente impacciata da una gonna che si allarga su un’intelaiatura di cerchi concentrici, corre per la scena e si abbandona al suolo, semina grappoli d’uva e compare con una vanga in mano da offrire al suo Tarquinio perché le scavi una fossa che arrivi dall’altra parte del mondo, giacché «l’amore è una gara di becchini».

C’è un’aria di casualità in quel che avviene sulla scena, una sorta di provvisorietà che impedisce di dar troppo credito a quelle figure in monacali abiti neri, a quella tammuriata collettiva protratta fino allo sfinimento, a quegli ossessivi rintocchi di campane, come per deviare l’attenzione da una violenza che non è mera esibizione; che non deve colpire lo stomaco ma entrare dentro più a fondo. Mentre invece è rigorosa la precisione dei tempi e dei gesti con cui Liddell guida i suoi compagni, un cenno della mano e tutti si arrestano. Nel montaggio si alternano i pieni e i vuoti (c’è uno straordinario momento in cui tutto sembra fermarsi, in silenzio), la leggerezza e la pesantezza, un coro di bambini e la violenza di gruppo sperimentata dalla donna che a lungo era rimasta immobile di fronte a quegli uomini instabili e insofferenti.

Lei invece, Angélica Liddell, ormai si è spogliata dell’ingombrante abito di scena, è rimasta con una leggera veste nera e può scatenare la sua danza selvaggia fra gli spruzzi delle bottiglie di birra aperte l’una dopo l’altra. You are my destiny, canta finalmente Paul Anka.
You are my destiny è uno spettacolo bellissimo, capace di offrire una forza critica e liberatoria allo spettatore che, privato di regole rassicuranti, accetti di prendere parte alla sua creazione di senso.

Di fronte alla complessità drammaturgica di You are my destiny, lo spettacolo presentato a Romaeuropa, Tandy, può sembrare quasi teatro da camera. Quanto quello è dilatato nello spazio e nel tempo, tanto questo assai più breve spettacolo sembra concentrato attorno al suo nucleo, ed è ancora una vicenda di patologia come destino, che prende le mossa da un racconto di Sherwood Anderson, Winesburg, Ohio. Il racconto è però solo un antefatto o un prologo, risolto in un’immagine che si scioglie in un lento rituale. Un uomo disteso in mezzo alle bottiglie vuote che altri uomini hanno disposto intorno a lui e colmato poi di fiori. È venuto in campagna per smettere di bere ma non ce l’ha fatta. Vede in una bambina l’amore che non potrà più avere. La chiama Tandy, le impone di avere il coraggio di rischiare di essere amata. Una candela che brucia illumina i residui di qualcosa è già successo sulla scena, su cui incombe sul fondo in grandi caratteri luminosi la scritta «There will be miracles». Ma forse anche questo è solo un sogno, il sogno di una donna già matura che alla bambina di allora offre un’altra determinazione: farò l’attrice. Un destino appunto, autoinflitto.

18liddellROMA

La patologia ha anche un lontano nome scientifico, sindrome di Clerambault; vuol dire l’ossessione di essere amata spinta fino a creare un altro illusorio accanto a sé. Spunta anche una fotografia di donne in un manicomio dell’Ohio, 1945. Ma tutto è velato, in questo rito che aspira a una resurrezione. Qui violenza non ce n’è, neppure come metafora, c’è una sorta di diffusa malinconia, anche la nudità che cerca di liberarsi in un movimento scomposto finisce sotto un velo, come il cane fisso a un lato della ribalta, un po’ inutile. E il Lamento della Ninfa di Monteverdi cantato da un ensemble vocale aggiunge un tocco di barocco al finale sospeso sull’orlo di un precipizio penitenziale. Perché di lui mi struggo…