Suonava il violino, impartiva lezioni di solfeggio e insegnava arte agli adulti. Frequentava tutte le menti più aperte dell’epoca, aveva ospitato Alfred Jarry nella sua casa (fu lui a trovare quell’epiteto di Doganiere), offriva alla comunità bohémien parigina serate letterarie e si divertiva a scrivere vaudeville per il teatro.

Henri Rousseau, oggi al centro della importante mostra a Palazzo Ducale di Venezia (in corso fino al 5 luglio prossimo), in quella Francia frizzante era un personaggio al centro di una comunità stravagante quanto lui, seppure sfoggiando caratteristiche diverse. Fuori confine, in Germania, un pittore del Cavaliere azzurro come Franz Marc confessava di essere ossessionato da lui, «cerco di assumere lo stesso stato d’animo che immagino dovesse avere quel vero pittore», diceva. Robert Delaunay e sua moglie Sonia (prima ancora sposata per «convenienza» con Wilhelm Uhde, il dealer e critico che scriverà la monografia su Rousseau nel 1911, un anno dopo la sua morte) lo adoravano. E anche la madre di Delaunay subì il suo fascino, o meglio, la cosa fu reciproca: il celebre dipinto con al centro una conturbante Eva nera, L’incantatrice di serpenti, da lei commissionato, è debitore dei suoi racconti di viaggio in India.

Quando si ritrae, poi, Rousseau lo fa giocando con l’icona del classico pittore «alla francese» e, per non mostrarsi troppo deraciné rende omaggio alle sue due mogli, scomparse prematuramente: sulla tavolozza ci sono scritti i loro nomi, Clémence e Josephine. La prima gli darà ben nove figli, dei quali sopravvisse solo una bambina. Ha radici autobiografiche, quindi, quel suo tornare ossessivamente sul tema dell’infanzia, conferendo ai suoi bambini dipinti un’aria spaesata, quasi sorpresa del loro essere al mondo, presenze sospese tra vita e morte al pari dei fantasmi.

In un periodo di folli sperimentazioni, il Doganiere non esitò a fornire al pubblico un’immagine di se stesso, una «posa»: un autodidatta in bilico fra arcaiche, magiche apparizioni e fantasiose ricostruzioni della realtà, attingendo anche a una temperie storica che poi, per alcuni versi, era quella del primo Romanticismo. Non dimenticò però la cultura contadina, le feste di paese, nozze e giochi popolari, sempre creando fondali stranianti, che esulavano dalla mera quotidianità. Un giorno, scriveva, «della mia pittura non vi meraviglierete più». Aveva bandito le impressioni atmosferiche ed era ritornato a sbozzare i contorni, alla pratica del disegno, trasfigurando cose da nulla in «soggetti straordinari», dal sapore ironico, come intuì con la sua descrizione magistrale André Lhote. «Diede diritto di asilo ai capi meno poetici – affermò – il baffo lustro di pomata, la manica a sbuffo, il vestito nero e, nei paesaggi, lo stabilimento e il palo telegrafico… Nel Medioevo sarebbe stato una delizia della folla, dando un’immagine – dei santi e donatori – frusta, ma piena di nobiltà».