In Un digiunatore, l’ultimo racconto di Kafka riproposto nella traduzione di Raoul Precht (Kafka e il digiunatore, Nutrimenti, pp.104, 10 euro), c’è qualcosa di teatrale. E non solo per via del protagonista, fenomeno da baraccone che si esibisce per il pubblico di un circo. Tutto il racconto ha un’ambientazione che pare ricreata sulle assi di un palco, tanto fissi ed essenziali sono i suoi elementi scenici. Una gabbia con una pendola, un giaciglio di paglia, qualche fiaccola: la quinta è minimale, da opera beckettiana, e ogni oggetto è illuminato dalla sua fisicità e funzionalità simbolica e narrativa.
La gabbia in cui è rinchiuso serve ad assicurare che l’uomo non tocchi cibo e, allo stesso tempo, segnala la solitudine della sua performance e il distacco col proprio pubblico. La pendola, più che scandire, simboleggia il tempo del digiuno, cioè quei quaranta giorni imposti dall’impresario contro la volontà del digiunatore stesso. E il pagliericcio fa da lettiera quasi bestiale al protagonista e assolverà il suo nuovo, alternativo compito nel finale. Uno sfondo povero ma potentemente evocativo non molto dissimile dall’apparato scenografico – una capanna di fango e canne, un libro, qualche stuoia e poco più – in cui lo scrittore più amato da Kafka, Gustave Flaubert, aveva ambientato le visioni di un altro celebre digiunatore.
Anche La tentazione di sant’Antonio, infatti, come e più del racconto kafkianosi colloca in uno spazio teatralizzato. Ma a differenza del santo eremita, a stomaco vuoto se non per il pane portatogli due volte l’anno, la denutrizione del personaggio di Kafka non ha implicazioni religiose. Di più: non ne ha nessuna. Il rifiuto del cibo non ha altro obiettivo che se stesso ed è, pertanto, una forma d’arte (da cui il titolo originario del racconto: Ein Hungerkünstler, «un artista del digiuno»).
Di qui la lettura invalsa del digiunatore come metafora dello scrittore e di Kafka stesso. Per il poeta del digiuno l’astensione dal cibo ha lo stesso valore della scrittura per il romanziere: è un atto necessario e naturale, «la cosa più facile del mondo». Il rapporto col pubblico, come per un Kafka amareggiato dall’indifferenza di critici e lettori, è contraddittorio: «ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno» confessa l’artista della fame, senza che ciò gli impedisca di essere vittima dell’incomprensione altrui.
Nella prima parte del libro, un brano che ripercorre gli ultimi giorni di vita dell’autore, Precht pone l’accento su questa lettura autobiografica con dovizia di particolari: l’aggravarsi della malattia, i cambi di sanatorio, i pasti frugali, i cocktail di morfina e pantopon, l’approssimarsi della morte. Non sorprende che, in simili condizioni, nei suoi ultimi racconti Kafka dia corpo a figure – il digiunatore, il trapezista, la cantante Josefine – di artisti incompresi, tragicamente comici ed esiliati o autoesiliatisi in una nicchia di solitudine.
Il diamante del racconto kafkiano è alloggiato come in un castone tra questo brano di critica narrativa e il minisaggio che chiude il libro. Qui Precht analizza l’interesse di Kafka per il mondo del circo, le figure di digiunatori che circolavano allora in Europa, i dettagli realistici delle esibizioni che l’autore travasa nel suo racconto. Un contrappeso storico-critico che mette in guardia i lettori da un’interpretazione troppo schiacciata sulla biografia (non esiste modo peggiore di leggere Kafka che costringere l’ambiguità testuale, quell’alone semantico che sprigiona dalla sua prosa nella camicia di forza di una lettura a senso unico) e ci trasporta nella fucina dell’autore, additandoci gli alambicchi in cui il materiale grezzo della realtà – esperienze di prima mano, notizie apprese su giornali e riviste – viene filtrato e distillato nella sua essenza letteraria.
Per questo e altro, Kafka e il digiunatore è un’occasione in più per fare i conti con questo gioiello narrativo e approfondire l’opera kafkiana. Nella Tentazione flaubertiana il digiuno spalanca le porte della percezione e del delirio mistico e dà il la a un’abbuffata barocca di visioni, diavoli e dei, fantasmi di vivi e di defunti. Ma dove Flaubert sovraimprime temi e accavalla immagini, Kafka lavora per sottrazione, accarezza l’annullamento. E per paradosso è proprio qui che la figura dell’artista del digiuno e quella dell’autore cessano di collimare.
Nel leggere il racconto, come altre sue opere, si resta folgorati dalla pochezza di materiali – la povertà scenografica, l’esilità della trama, la prosa secca e scarnificata come il corpo del digiunatore – con cui Kafka mette in piedi lo spettacolo della sua arte e fa sì che, sulla riva opposta del fallimento e dell’oblio a cui è destinato il suo personaggio, noi continuiamo, a distanza di quasi un secolo, ad ammirare il suo digiuno.