Crisi e riforma del Parlamento è il titolo di un volume, curato da Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti (Ediesse, euro 14), che raccoglie alcuni contributi di Pietro Ingrao sullo stato delle istituzioni italiane. L’arco di tempo della produzione ingraiana che il volume prende in esame è il biennio 1985-1986. Un arco di tempo alquanto delimitato, ma tuttavia essenziale per comprendere gli sviluppi della questione istituzionale in Italia. Questione quanto mai difficile e tormentata, soprattutto se posta in termini ingraiani. Le riflessioni dell’esponente comunista sulle «nuove risorse del mutamento istituzionale» appaiono infatti permeate da un assillo insistente e grave che pervade, pagina dopo pagina, l’intero volume: come riaffermare la centralità del Parlamento e quindi della democrazia rappresentativa in una società di massa frammentata e in continua trasformazione.
Un «assillo» che Ingrao declina con straordinaria abilità, tenendo ben presente il contesto, le sedi, gli interlocutori. Una poliedricità di accenti e di sfumature che spinge il lettore a misurarsi con le diverse dimensioni dell’agire pubblico ingraiano: l’Ingrao giurista (autore della relazione su «potere e poteri nell’esperienza giuridica italiana» all’Istituto di diritto pubblico de «La Sapienza»); il teorico della politica (protagonista con Norberto Bobbio di un suggestivo confronto epistolare su democrazia, egemonia e masse); il Presidente del Crs (con la sua relazione programmatica al convegno annuale dell’associazione del 1986); il leader di partito (artefice della discussa mozione «per un governo costituente» al XVII Congresso del Pci).

Lo stato della Repubblica

Punto di snodo della riflessione di Ingrao è la centralità del Parlamento così come voluta e delineata dalla Carta repubblicana. Una costruzione complessa e articolata, destinata a intrecciarsi intimamente con le sorti della Costituzione e protesa a fare del Parlamento «il luogo centrale, la sede dirigente e di equilibrio, in cui possono ricomporsi i fili dell’opera nuova da compiere». Una vera e propria opzione «costituente» che traeva la sua legittimazione non dalle seduzioni dell’ingegneria costituzionale (oggi così di moda), ma dalla storia del paese, dai processi di trasformazione dello Stato, dalla forza politica assunta dai partiti di massa durante la Resistenza. Solo il Parlamento avrebbe potuto, in altre parole, offrire una trama compiuta alla Repubblica operando quale imprescindibile asse di «collegamento diretto fra Stato, istituzioni e i partiti politici che erano stati i protagonisti della Resistenza».

Ecco perché Ingrao diffida di che vede «nella caratterizzazione parlamentare della forma di governo (italiana) una pura proiezione di modelli di altri paesi occidentali». Ed ecco perché critica quelle componenti del pensiero liberale che non hanno mai compreso che la centralità del parlamento, più che un vezzo «ideologico» della sinistra, era la risposta a «interessi quanto mai corposi e specifici della situazione italiana» così come storicamente determinatasi.
Il Parlamento non costituisce insomma per Ingrao una delle tante articolazioni della democrazia costituzionale (al pari di Governo, Capo dello Stato, Corte costituzionale). Ai suoi occhi il Parlamento è la democrazia costituzionale. E finanche le loro sorti sono intimamente legate.
È da qui che prende avvio la sua originale ricostruzione della storia costituzionale repubblicana (che altro non è, per Ingrao, che la storia del Parlamento): dall’ostruzionismo della maggioranza (culminato nella stesura della legge elettorale maggioritaria del 1953) alle lotte per l’attuazione della Costituzione (sviluppatesi a ridosso delle mobilitazioni politiche e sociali del biennio 1968-69). E poi ancora: dallo Statuto dei lavoratori del 1970 all’affermazione delle politiche conservatrici nei primi anni Ottanta.
Con la vittoria della Thatcher e di Reagan la reazione capitalista torna nuovamente in campo in tutto l’Occidente. E Ingrao ne evidenzia anzitempo la dimensione «globale»: «manipolazione mondiale dell’informazione e della cultura; scelte tecnologiche che incidono nel rapporto millenario tra uomo e ambiente…; manovre finanziarie che ridistribuiscono risorse e condiziono economie su scale mondiale; redistribuzione di potere: fra aree del mondo, all’interno stesso dell’area occidentale, fra nazioni e all’interno delle diverse nazioni».
Tutto ciò avrebbe avuto le sue ricadute anche sul piano costituzionale. Sono questi gli anni in cui il sistema politico e istituzionale inizia (sempre più visibilmente) a dare segni di cedimento: le dinamiche dei poteri subiscono un’alterazione patologica senza precedenti e a fronte di una istituzione parlamentare destinata divenire sempre più esecutiva («ridotta solo a mettere timbri») il governo, di converso, tenderà sempre più ad assumere i connotati di un legislatore (abusivo). I fenomeni degenerativi denunciati da Ingrao sono gli stessi fenomeni che pervadono oggi le istituzioni parlamentari: dall’utilizzo smodato della «decretazione d’urgenza, all’uso del voto di fiducia … alla messa in mora dell’iniziativa legislativa parlamentare».
Le innovazioni di sistema fino a oggi sperimentate più che risolvere hanno ulteriormente aggravato le patologie dell’ordinamento istituzionale italiano: verticalizzazione del consenso, personalizzazione della politica, incremento del tasso di corruzione nelle amministrazioni pubbliche, crescente esasperazione dei rigurgiti «partitocratici» (senza più partiti).
Tutto ciò poteva essere evitato? Per Ingrao i processi di trasformazione della società, venutisi consolidando nel corso degli anni Ottanta, inducevano certamente a un ripensamento degli assetti politici e costituzionali. Ma la direzione, i contenuti, gli sbocchi di tali istanze riformatrici avrebbero dovuto però essere diversi. Per il dirigente comunista era cioè possibile immaginare e praticare altre riforme del sistema politico e costituzionale. Ad assumere l’iniziativa avrebbe dovuto essere la sinistra. Una sinistra moderna, in grado di interpretare i processi sociali e in ragione di ciò disposta a giocare d’anticipo sul terreno delle riforme.
Le cose sono andate un po’ diversamente. E a fronte del progressivo disfacimento del cosiddetto ordine della mediazione (parlamento, partiti, sindacati), la sinistra prima ha preferito affondare la testa nella sabbia e poi assecondare i miti e le ideologie della modernizzazione liberista. Di male in peggio. La sinistra non ha compreso Ingrao. E soprattutto non ha compreso che l’alternativa che il Paese aveva, già in quegli anni di fronte a sé, non era tra conservazione e innovazione, ma tra innovazione e innovazione.

Il governo dell’innovazione

Nel suo intervento al XVII congresso del partito comunista Ingrao su questo punto è quanto mai netto: «Non possiamo nascondercelo: stavolta l’obiettivo è più avanzato» e ci pone di fronte alla «domanda chi governerà l’innovazione». E cioè chi si farà carico di modificare gli assetti istituzionali, riformando un sistema politico invecchiato e sempre più paralizzato da «un governo poggiato su strutture ministeriali vecchie di un secolo, con un Parlamento bloccato e soffocato da un inutile, sistematico doppio lavoro su un mare di leggi e decreti, con una pubblica amministrazione arcaica». Di qui il ricco ventaglio di ipotesi di riforma elaborate in quegli anni da Ingrao: rinnovamento degli apparati di governo, monocameralismo, modernizzazione della pubblica amministrazione, introduzione del referendum propositivo.
Era questa la piattaforma «riformatrice» con la quale tutta la sinistra avrebbe dovuto misurarsi. E avrebbe dovuto farlo e farlo immediatamente. «Purché non ci si muova quando ormai è tardi»: è con queste enigmatiche parole che Ingrao conclude la sua intervista a L’Espresso del 23 febbraio 1986.
Ma a cosa si riferisce Ingrao? Tardi rispetto a cosa? La risposta non ce la fornisce direttamente l’autore, ma è possibile comunque desumerla da quella che è stata, in questi decenni, la natura del cosiddetto revisionismo costituzionale. Tardi allora rispetto al pericolo che, a fronte di un atteggiamento sempre più inerte e rinunciatario della sinistra, potesse prevalere nel senso comune una diversa idea di innovazione, di Parlamento, di democrazia. Tardi rispetto al rischio che il bisogno di riforme se lasciato inappagato potesse, a lungo andare, degenerare in soluzioni di carattere autoritario. Tardi rispetto all’incognita che, se non si fosse tempestivamente intervenuto sulle degenerazioni del sistema dei partiti, anche la riforma del Parlamento avrebbe potuto essere in futuro impiegata per disarticolare la rappresentanza politica, trasformando la democrazia rappresentativa in una democrazia di investitura.
Oggi, dopo trent’anni di esperimenti maggioritari, di capi del governo tutti (più o meno) «unti dal Signore», di progressivo deperimento delle assemblee politiche (a ogni livello di governo), è più facile comprendere «l’assillo» di Pietro Ingrao. Ma anche più amaro.