Louis (Gaspard Ulliel) è uno scrittore di successo che un giorno annuncia alla famiglia il suo ritorno a casa dopo dodici anni di lontananza: loro rimasti lì, in quel paesino remoto, lui divenuto una celebrità nella metropoli. Louis è malato, ha poco tempo davanti a sé, vorrebbe dirgli che sta per morire ma la follia familiare lo risucchia al punto da non trovare né la voce né le parole proprio lui che nell’uso ne è maestro, con cui parlare agli altri. Chiuso nel silenzio di una distanza frammentata, di un vuoto che appare quasi speculare a quello che sta per lasciare nel mondo, alla realtà che gli scorre davanti e che già immagina senza di sé il giovane ripartirà col cuore forse più pesante e stavolta per sempre.

Nella piéce teatrale di Jean-Luc Lagarce che lo ha ispirato per È solo la fine del mondo – Gran Premio della giuria all’ultimo festival di Cannes e da oggi in sala – Xavier Dolan rovescia le ossessioni private che fondano tutti i suoi film: la madre-mondo amata e odiata, tiranna e regina, il gender, le relazioni familiari, lo spazio chiuso della casa solcato da violenza, silenzi, ricatti emotivi, sensi di colpa, al punto che il motivo iniziale, il «segreto» del protagonista, finisce per passare in secondo piano. Perché come già altre volte è la famiglia con le sue distorsioni che il ventisettenne regista canadese mette al centro della narrazione, la sua patologia che consuma l’amore annegandolo nell’ipocrisia e nel risentimento. Da cosa fuggiva Louis possiamo immaginarlo, e possiamo immaginare anche le conversazioni su di lui tra le pareti domestiche, e forse pure il sentimento di imbarazzo che lo ha spinto a cancellarle.

Il successo di Mommy ha permesso a Dolan un cast da grosso budget rispetto agli attori quasi sempre sconosciuti con cui lavora: oltre a Gaspard Ulliel Nathalie Baye, la madre con le unghie blu e una volgarità meschina che sembra rinchiusa nel ricordo di una felicità passata, a guardarli molto improbabile; Vincent Cassel, il bullissimo fratello maggiore soffocato dalla frustrazione che maschera la sua violenza col vittimismo; Léa Seydoux, la sorellina inacidita (e misoginamente inchiattita) in guerra perenne con quel fratello pazzo; Marion Cotillard, la cognata, moglie di Cassel, che sbatte per ore gli occhioni ebeti cercando di dimenticare l’errore di averlo sposato. Ognuno di loro si confronta singolarmente con la presenza di Louis, che appare quasi come un fantasma prima e dopo il momento cruciale, il pranzo che li riunisce insieme a tavola: sudati, il calore di una giornata torrida che accelera le pulsioni, gli asti, la rabbia di cui lui è il catalizzatore e l’unico colpevole,

Se il ragazzone stonato di Mommy esprimeva una sua intima disperazione, in questo interno piccolo borghese con massacro, domina invece il vuoto dell’isteria formale (pellicola, formato ecc). Dolan, quasi indifferente ai personaggi, sembra utilizzare la situazione per compiacere il suo virtuosismo che manca però di una verità (pure nel pop e nel post) a sostenerlo. Per quasi due ore alterna musica e prove di attori – specie le urla di Cassel. Isola i personaggi in una serie di primissimi piani, esibizione della solitudine contemporanea che tanto lo seduce, e soffoca lo spettatore con l’intento di metterlo nella stessa condizione del suo protagonista, illuminato come un martire, troppo preoccupato però da se stesso per riuscirvi.

Lo spazio geometrico in cui si declina l’intera azione è la parola: negata, balbettio di frasi inespresse, di urla che nulla dicono, espressione dell’impossibilità di comunicare. Dolan ne moltiplica la teatralità in una continua iperbole che nello scarto fra il silenzio, l’egocentrismo e il flusso logorroico lascia intravedere ciò che ognuno nega disperatamente. Una cacofonia feroce, che stordisce e affatica, in cui nessuno si ascolta perché è già troppo tardi. E che Dolan sembra assecondare smorzando con l’eccesso la ferocia. Sì è la famiglia, niente di nuovo purtroppo.