Louis Althusser ha sempre voluto essere un filosofo comunista, perché pensava, come scrisse Etienne Balibar molti anni orsono, che «la filosofia non fosse, né più né meno, che politica nella teoria» ossia, con le parole di Althusser, «lotta di classe nella teoria». La filosofia, dunque, come arma nella lotta di classe. Non l’unica, non la principale, ma la più efficace per combattere politicamente nella teoria, cioè in un campo complesso formato dalle scienze, più o meno esatte, e dalle ideologie.
Ma è davvero necessario lottare nella teoria? Da questo interrogativo parte il testo finora inedito, emerso dall’ampio lascito althusseriano (http://www.imec-archives.com/fonds/althusser-louis/) in parte ancora inesplorato, Initiation à la philosophie pour les non-philosophes (Puf, pp. 388, euro 21), grazie al lavoro di G.M. Goshgarian. Un «manuale», scritto all’incirca tra il 1976 e il 1978, e che, più che una mistica «iniziazione», è un avviamento alla filosofia e alla pratica filosofica di Althusser, quindi alla sua idea di filosofia fino alle soglie del cosiddetto «materialismo aleatorio» degli anni Ottanta del Novecento. Congiuntamente, è anche un avviamento tra i tanti possibili alla filosofia in generale. Scritto con un linguaggio chiaro che non sacrifica nulla alla complessità e alla radicalità della riflessione.

Il primato della pratica

I due fulcri del percorso althusseriano sono i concetti di «astrazione» e di «pratica», perché «ogni pratica specifica fa astrazione da tutto il resto della realtà per dedicarsi alla trasformazione di una parte della realtà»: l’esempio primo è il linguaggio. Non solo, dunque, la «pratica politica mostra un rapporto specifico con l’astrazione», ma ogni pratica si fonda sul processo di astrazione, che è una pratica tesa a modificare la realtà: «non c’è astrazione senza l’esistenza del concreto, ma gli uomini possono avere rapporti sociali col concreto solo mediante le regole astratte del linguaggio». Da ciò segue che esistono «un numero infinito di gesti astratti che sono legati a pratiche concrete».
Importante, però, è che «l’astrazione non è la separazione di una parte appartenente a un tutto concreto», ma che essa «è legata al concreto» benché sia «altra cosa da una parte del concreto», perché «aggiunge qualche cosa al concreto»: la «generalità di un rapporto» che «domina il concreto a sua insaputa e che lo costituisce in quanto tale». In altri termini, esistono «due concreti: quello non appropriato socialmente e quello socialmente appropriato, perché prodotto come concreto dall’appropriazione» che l’uomo ne fa tramite il linguaggio e le altre pratiche sociali. Il termine pratica, allora, «indica un rapporto attivo col reale», ed essendo essa innervata di astrazioni mostra che tutti gli esseri umani «sono dei teorici e non perché lo vogliano, ma perché parlano». La teoria, dunque, si trova al cuore di ogni pratica, resa possibile dalle astrazioni che ci consentono di appropriarci del reale perché con esse stabiliamo relazioni tra le cose concrete, relazioni che esse hanno senza saperlo.
Il primato della pratica definisce la posizione materialistica in filosofia rispetto all’idealismo in un senso forte, perché «ogni pratica è sociale» e, dunque, rinvia ai rapporti sociali che la condizionano e, al contempo, la rendono possibile. Nelle società classiste, questi rapporti sono rapporti tra le classi ossia rapporti stabiliti, storicamente e, dunque, in modo non lineare, dalla lotta tra le classi. Tutte le filosofie, riconoscano apertamente o meno l’esistenza di questi rapporti, vi sono immerse: la loro differenza sta, però, nell’operazione che esse compiono e che, anche se non lo dicono apertamente, è inevitabilmente schierata con una delle classi in lotta.

Produzione del consenso

C’è però una linea di demarcazione che, secondo Althusser, sovradetermina tutte le altre: lo Stato, perché «c’è Stato solo nelle società di classe». Lo Stato, infatti, non è solo lo Stato-nazione, ma, come avevano già detto Marx e Lenin, ogni formazione politica che detenga il potere amministrando il confine tra proprietari dei mezzi di produzione e proprietari di sola forza lavoro: le multinazionali, ad esempio, sono Stato, anche se non appartengono a un solo Stato-nazione. Le filosofie, allora, stanno con lo Stato e difendono l’ordine costituito dalle classi al potere o contribuiscono a costruirlo, oppure lo combattono schierandosi con le classi sfruttate, per sostituire un nuovo Stato al precedente o per estinguerlo. È qui che i discorsi sull’astrazione e sulla pratica, sulla filosofia e sulla lotta di classe si congiungono. Uno Stato, infatti, «non può assicurare la propria durata usando solo la forza», perché ha bisogno anche della «persuasione», con la quale «inculcare le idee della classe dominante» e creare «consenso». Ha bisogno cioè dell’ideologia, di un sistema di idee che convinca gli individui a personificare certi ruoli sociali e ad accettare l’ordine che li genera in vista della propria durata, perché un’ideologia «è un sistema di idee solo in quanto è un sistema di rapporti sociali». È l’ordine costituito o in via di costituzione, dunque, che mira al funzionalismo e allo strutturalismo inteso come immodificabilità dei ruoli sociali. L’indeterminatezza della lotta di classe (il vero nome dell’aleatorio), però, può scompaginare i desideri.
L’ideologia è il campo di battaglia proprio della filosofia: è lì che essa interviene come arma di una delle classi in lotta, perché nessuna scienza può farlo al suo posto. Essa, infatti, crea i quadri di compatibilità teorica tra le ideologie, «locali» (individuali) e «regionali» (collettive), proprie dei membri della classe dominante o della classe dominata.

Dentro o fuori il governo

Compito di una «posizione materialistica in filosofia» è fornire i quadri teorici per unificare le ideologie antagonistiche nel corso della lotta di classe. Non esistono, dunque, solo le filosofie accademiche che si insegnano e si «ruminano» nelle università, filosofie autoreferenziali che credono di non avere un «fuori» (idealismo), come qualcuno superficialmente o strumentalmente crede, ma ci sono anche filosofie materialistiche, ben consce del «fuori» che le condiziona (i modi della produzione, le conoscenze pregresse, la lotta di classe, l’inconscio) e che in esso prendono posizione per combattere contro lo Stato: non è, infatti, solo dicendo che lo Stato non c’è più che ci si trova, performativamente (ultima frontiera dell’idealismo), senza di esso: «questo punto è importante, perché un partito comunista non dovrebbe entrare nel governo di uno Stato borghese, anche se questo governo è di “sinistra”, unitario e deciso a mettere in opera riforme democratiche. Ma non dovrebbe nemmeno entrare in un governo della dittatura del proletariato, poiché la sua vocazione ultima è gestire gli affari di uno Stato di cui deve preparare la distruzione, e se consacra tutte le sue forze a tale gestione non potrà contribuire a distruggerlo. A nessun titolo, dunque, un partito comunista può trasformarsi in “partito di governo”, perché essere un “partito di governo” è essere un “partito di Stato”».
Forse questo manuale non ci dice dove andare, ma ci fa vedere da dove veniamo e dove siamo. Forse non è molto, ma è un inizio.