Quando due settimane fa madri egiziane, da comunità a centinaia di chilometri di distanza, hanno occupato la strada di fronte al quartier generale dell’Egyptian Pharmaceutical Trading Company al Cairo, il regime ha subito fiutato il pericolo: con i figli in braccio e i mariti al fianco, le donne hanno protestato per l’aumento del prezzo del latte artificiale e il taglio dei sussidi imposto dall’austerity voluta dal Fondo Monetario Internazionale.

Un aumento non da poco: una confezione costa 65 sterline egiziane (6,56 euro) contro le 17 del sussidio (1,71). Per una famiglia con entrate scarse – sempre di più in Egitto dove il 25% della popolazione vive sotto la soglia di povertà – acquistare latte per i figli è una battaglia quotidiana. Sia per il costo, sia per la scarsità.

In mezzo si è allora messo l’esercito, colonna portante sia del regime dell’ex generale al-Sisi che dell’economia nazionale: per frenare le proteste ha importato 30 milioni di confezioni di latte artificiale che rivenderà a meno della metà del prezzo di mercato, 30 sterline, 3 euro.

Nella crisi si è infilato anche il Ministero della Salute che ha ordinato analisi dei seni delle donne con bambini piccoli per verificare l’effettivo bisogno di latte. Una notizia che ha sollevato subito un vespaio: molte donne lavorano e il latte artificiale serve ad alimentare il figlio quando non ci sono, altre hanno meno latte. In questi casi sarebbero escluse dai pochi sussidi a disposizione.

Ma lasciando da parte le folli proposte governative, ad emergere è il ruolo dell’esercito nell’economia di Stato e nel soffocamento dei movimenti sociali ed economici di protesta: le forze armate intervengono a gamba tesa, a fare da vero e proprio calmiere economico in un periodo di grave crisi, con una crescita preoccupante dell’inflazione e il crollo devastante dell’occupazione. Lo fanno vendendo latte a metà prezzo, ma anche incrementando a dismisura l’allevamento di pesci, abbattendone il prezzo.

Se da Nasser passando per Mubarak l’esercito egiziano si è impossessato di ampi settori produttivi del paese (i dati ufficiosi, perché di ufficiali non ce ne sono, parlano di un buon 40% di aziende e società egiziane e un 20% di Pil), l’ultimo anno ha visto un’ulteriore ascesa, ovviamente facilitata dal golpe militare.

Uno scambio funzionale che sta alla base dell’intreccio di autoritarismo e potere economico: al-Sisi, privo di una forza parlamentare che lo legittimi, ha nell’esercito la colonna portante del suo potere politico. Lunga la lista dei settori già occupati: turismo, agricoltura, costruzioni, produzione di fertilizzanti, pasta, acqua minerale, cemento, tv e pc, frigoriferi. E ancora appalti per la costruzione di strade, ponti, ospedali, dell’aeroporto di Sohag e del porto di Gurghada, oltre all’allargamento del canale di Suez.

Ora i tentacoli di generali e colonnelli si allungano verso settori nuovi grazie ad appalti girati ad agenzie vicine ai ministeri e che a loro volta gestiscono numerose aziende e fabbriche: la National Service Projects Authority e la Armed Forces Engineering Authority affiliate al Ministero della Difesa; la National Authority of Military Production legate al Ministero della Produzione militare; l’Arab Organization for Industrialization, di proprietà dello Stato.

Tra gli ultimi appalti ottenuti – in alcuni casi senza gare – ci sono la produzione di equipaggiamento biometrico per gli aeroporti e di medicinali contro il cancro (per la prima volta prodotti in Egitto), l’apertura di scuole basate sul sistema statunitense (è il caso della Badr International School della Terza Armata a Suez) e la costruzione di college e alloggi per studenti, la produzione di pannelli solari e di un impianto solare da mille megawatt (grazie ad un prestito dalla Cina di 3,3 miliardi di dollari), l’allevamento di pesci su decine di migliaia di km quadrati di terre statali, ristrutturazione e restauro di siti archeologici e storici.

L’allargamento a macchia d’olio e la militarizzazione dell’economia è facilitata dall’esenzione dal pagamento delle tasse delle aziende di proprietà dell’esercito: a giugno un decreto presidenziale ha cancellato dalla lista dei contribuenti altre 547 società, tra cui hotel e resort.

Un’economia che non è parallela a quella statale, ma che è l’economia statale. E che approfitta di lavoro a basso costo, assenza di contratti nazionali, zero rischio di scioperi (illegali perché le aziende sono militari e non civili: lo sanno bene i 26 operai dei Cantieri Navali di Alessandria sotto processo militare per aver scioperato) e aiuti statali che permettono di vendere a prezzi ribassati e di generare nell’opinione pubblica un maggiore attaccamento ad uno Stato militarizzato. Come dice bene Ziad Akl, ricercatore all’Ahram Center for Strategic Studies del Cairo, «l’esercito prova a fare da collegamento tra lo Stato e i poveri».