La Cina sarà una potenza che cercherà una forma di dominio egemonico, non solo nella propria area di pertinenza, o sarà invece coerente con la propria impostazione, basata sul concetto di «crescita pacifica»? Si tratta di uno dei punti di analisi più rilevanti degli ultimi tempi. Il cambio di leadership avvenuto ormai due anni fa a Pechino, ha consentito di attraversare le questioni più specificamente politiche, spesso affrontate con eccessivo «orientalismo» in Italia, mentre nel resto del mondo, i sinologi e gli osservatori geopolitici si concentrano ormai sull’approccio alla politica estera di Pechino. Tre libri, in particolare, consentono una panoramica sulle scelte internazionali del Dragone, mettendo in evidenza nuovi fattori di potenziale crisi, o meno, non solo nell’area del Pacifico.
Nel 2013 uno dei massimi esperti cinesi, David Shambaugh, ha pubblicato il suo China Goes Global: The Partial Power, 2013, (ebook, dollari 14, Oxford University Press), un’opera giunta nel momento in cui sono iniziate nuove crisi mondiali, capaci di ritagliare alla Cina un ruolo che ormai è da considerarsi fondamentale. L’assunto di Shambaugh è che, in realtà, la Cina sia ancora una «potenza parziale» e che dunque non dovrebbe costituire alcun pericolo. Shambaugh parte dal fatto che l’ascesa cinese viene descritta, specie sui media americani, come una potenziale «minaccia» alla pace del mondo. Ci si chiede, infatti, se una nazione che progredisce economicamente e, quindi, anche a livello militare, potrà prima o poi diventare uno Stato con velleità imperialistiche.
Ci sono alcune specificità cinesi, tuttavia, che sembrano smentire questo rischio. Pechino è oltremodo concentrata su stessa e ha sempre dimostrato di essere in grado di rispettare un proprio ruolo internazionale, accettando regole e norme, basti pensare al Wto. Inoltre la Cina si percepisce ancora, davvero, come paese in via di sviluppo e non sembra dunque avere alcuna intenzione di andare a smussare equilibri che per quanto precari, garantiscono una comoda amministrazione dei propri interessi. La Cina ha bisogno di stabilità, tanto in casa, quanto all’estero. Un po’ tutti gli osservatori ricordano a questo proposito come ci sia una continuità nella politica estera cinese, da Mao a oggi, passando per Deng Xiaoping: nonostante siano cambiate molte cose, l’approccio agli affari internazionali sembra essere ancora lo stesso.
Pesano alcune specificità, che sono messe in risalto da Stuart Harris e il suo China’s Foreign Policy, pubblicato recentemente (ebook, dollari 17, Polity Press Cambridge). Va ricordato che Harris, oltre ad essere professore emerito è anche un ex rappresentante politico australiano, che ha vissuto alcune contrattazioni, militari ed economiche, con i cinesi. Il suo sguardo dunque, benché meno teorico di Shambaugh, è in ogni caso rilevante proprio per la sua praticità, che talvolta scivola in una didascalica rappresentazione del mondo cinese. Second Harris, l’ipotesi di minaccia cinese non starebbe in piedi. È vero che l’esercito di Pechino ha aumentato enormemente le proprie risorse e tecnologie, ma si tratterebbe di una rincorsa, più che di un sorpasso, quanto meno rispetto alla potenza di fuoco degli Stati uniti. Harris sottolinea inoltre un altro elemento importante.
La Cina spesso viene vista come una sorta di bandito nell’arena internazionale. La vicenda siriana, con il diritto di veto applicato da Pechino (nella sua storia però la Cina ha applicato poche volte, meno di Usa e altri Stati, tale diritto), costituisce in realtà un’eccezione nel più generale comportamento di Pechino nella sede Onu (dimenticata completamente nella recente crisi tanto ucraina, quanto irachena). Ma gli Usa sono lo Stato con maggior presenza militare in un’altra zona, ovvero il mar cinese del sud. È in quella zona che si giocano i destini dell’area, perché i tratti di mare e le loro isolette, sono contese tra Cina, Filippine, Vietnam, Malesia, Brunei. Se Filippine e Malesia sono paesi con i quali la Cina è stata in grado di sviluppare relazioni commerciali tali da supportare un’arroganza in tema di isole contese e tratti marittimi, il problema vero è il Vietnam.
Lo mette in evidenza Robert D. Kaplan in Asia’s Cauldron, the South China Sea and the end of a stable Pacific (ebook dollari 13,95, Random House New York) quando racconta come il paese dell’area, quella che un tempo era chiamata Indocina, meno confuciano e meno morbido con la Cina, anzi, sia proprio il Vietnam. Tutta l’educazione storica dei vietnamiti, ancora più che in chiave anti americana, o francese, le cui guerre sono viste come una parentesi tragica della propria millenaria storia, è proprio in funzione anti cinese. Il Vietnam è il paese meno vicino alla Cina di tutto il sud est asiatico. Nel mar cinese del sud, inoltre, ci sono anche le presenze – non certo secondarie – di Stati uniti e India. La questione è di molta importanza, perché ormai, nel mondo globalizzato, passa tutto da lì. Tratte commerciali e potenziali risorse (gas, idrocarburi) attraversano esattamente quel tratto di mare chiamato mar cinese meridionale, che Pechino rivendica da millenni, così come altri paesi. E negli ultimi anni c’è stato un costante accaparrarsi di isolette disabitate, ma strategiche dal punto di vista dei passaggi delle merci e delle future potenziali risorse nascoste sotto la superficie marina.
Più della metà di tutto il commercio annuale e un terzo di quello totale mondiale passa da questa zona di mare. Il petrolio trasportato dallo stretto di Malacca, dall’oceano indiano, verso l’Asia, passa dal mar cinese meridionale. Si tratta del triplo del traffico in vigore al momento nel canale di Suez, quindici volte quello del canale di Panama. Due terzi delle forniture energetiche coreane passano da qui. Il 60% di quelle giapponesi e taiwanesi e l’80% di quelle cinesi (per lo più petrolio). Come specifica Kaplan, nel mar cinese del sud ci sono petrolio, gas e possibilità di pesca quasi infinite. Il Brunei ha reclamato alcune isole, tre sono richieste dalla Malesia, otto dalle Filippine, Vietnam, Filippine e Cina reclamano in totale la zona. Non a caso la Cina ha sostenuto che il mar cinese del sud costituisce un «core interest», per Pechino, facendo infuriare gli altri Stati, Usa compresi.
Le navi americane sono le più presenti e, secondo Washington, garantiscono l’equilibrio della zona, minacciata dal riarmo cinese, che ha creato un effetto domino di corsa agli armamenti da parte di tutti gli altri Stati. La tesi di Kaplan, anzi, è proprio questa: la stabilità del Pacifico è a rischio, a causa del disimpegno americano. Una tesi che non trova conferma nella recente azione di «accerchiamento» della Cina compiuta da Obama, che ha portato ulteriori elementi di instabilità, anziché il contrario. Del resto, è vero che fino a qualche mese fa, se si doveva ipotizzare un conflitto, per quanto navale, lo si immaginava in questa zona del mondo. Con missili, basi per sottomarini (Hainan) e la possibilità che, una volta entrato in pieno vigore l’accordo di libero scambio con Taiwan, anche i missili puntati sull’isola vengano spostati nella zona più calda, il riarmo del Dragone è cresciuto parecchio nel mar cinese del sud negli ultimi dieci anni. Potrebbe non essere necessario alcun colpo di mano, sostengono molti osservatori, essendo sufficiente il deterrente delle armi, e la forza economica di Pechino capace di piegare anche le richieste di territoriali di stati che dipendono sempre più dall’economia cinese.