Non capita spesso che un libro, di indubbio valore scientifico e insieme (non suoni irriguardoso) «di costume», e uno spettacolo appena allestito, rispondano efficacemente insieme a una domanda che, al di là delle mode, ha un suo fondamento nello sviluppo della cultura in Italia e in Europa, a metà del secolo scorso. La domanda riguarda il valore oggi di Bertolt Brecht, drammaturgo e intellettuale tedesco autore di un corpus teatrale tra i più importanti del ‘900, antinazista e comunista, ma anche autore (dall’esilio americano in poi) di veri e celeberrimi «musical» assieme a Kurt Weill, Hans Eisler e Paul Dessau. Opere e creazioni dove il poeta elaborava, insieme e in nome dell’ideologia, tecniche e metodi che disegnavano un’altra scena teatrale.

 

 

Il libro è Brecht e il Piccolo Teatro (ed.Mimesis, pp. 194, 18 euro), lo firma Alberto Benedetto (giovane studioso ma responsabile produttivo di quella istituzione). Lo spettacolo è quell’Opera da tre soldi che proprio al Piccolo ha avuto due mesi di repliche e grande successo di pubblico, soprattutto giovane, grazie alla regia di Damiano Michieletto. Una versione muscolare e scattante, orchestra dal vivo a tutto volume, attori giovani e concitati che dissolvono in lontananza le Milve e i Modugno di tanti Strehler fa. Oggi del resto, Brecht non pare più «di moda», anche se alla faccia dei pensieri deboli e delle scene pallide o digitali, resta un gigante. Una sorta di spartiacque tra il prima monocratico e il futuro di massa della creazione artistica.

 

 

E in Italia, un «equivoco», o luogo comune, che è durato a lungo esplicando una grande potenza, è stata proprio la coincidenza tra le opere di Brecht e il luogo deve venivano patrocinate e rappresentate, ovvero il Piccolo di Milano.Tutto questo suona oggi quasi preistoria, ma è un fatto che fino a una trentina di anni fa, ogni testo del drammaturgo di Augusta, non poteva essere rappresentato che lì.

 
Tutto nacque dall’approvazione ammirata, espressa in un biglietto di cortesia, di Brecht per la messinscena della sua Opera da tre soldi con la regia Giorgio Strehler. Questi del resto è stato davvero, con Luchino Visconti, uno dei padri della rinascita del teatro italiano dalle macerie del fascismo e della guerra. A Milano fu lui a intraprendere, assieme a Paolo Grassi e alla nuova politica meneghina, la nascita del primo teatro «pubblico» in Italia, sostenuto dalle amministrazioni locali, e futuro modello di ogni intrapresa similare nelle altre città.

 

 

Quel biglietto, quasi fosse un titolo di Hawthorne, spinse la direzione del Piccolo a sentirsi in dovere di accaparrarsi una sorta di insindacabile diritto sulla concessione dei diritti dei testi brechtiani. Del resto il vecchio Bertolt, morì in pochi mesi quello stesso anno, il fatidico 1956. Per altro proprio il 14 agosto, giorno del compleanno di Strehler. Ma al di là delle cabale, il fatto che non potesse più pronunciarsi sull’argomento, innescò un caso internazionale, che vide soprattutto Grassi esporsi in una battaglia senza requie per acquisire quel privilegio, misurandosi senza remore con la vedova Helene Weigel e l’editore francofortese Suhrkamp.

 

 

Nella quale a cadere erano praticamente tutti i nomi del teatro italiano, perché molti accarezzarono l’idea di misurarsi con Brecht. E dovettero accadere molti fatti (dal giudizio cortese quanto tiepido sull’argomento di Rossana Rossanda, allora responsabile cultura del Pci, all’abbandono temporaneo del Piccolo da parte di Strehler, al passaggio di Grassi alla Scala e poi alla Rai) perché i diritti venissero liberalizzati (come già erano del resto). Ma il libro di Alberto Benedetto, nonostante l’assoluto rigore nel far parlare gli archivi, traccia una storia parallela assai interessante (e praticamente inedita, al di fuori degli studiosi) del teatro italiano e della società culturale del secondo novecento.