Si tratta di una decisione dal forte significato simbolico e pratico: la commissione d’appello responsabile per l’esame dei ricorsi di migranti e profughi, ha accolto la richiesta di un profugo siriano, giunto a Lesbo dopo il 19 marzo scorso, che si era opposto al suo ritorno obbligatorio in Turchia.

Il ricorso è stato presentato da un cittadino siriano al quale inizialmente era stato negato il diritto di asilo e che è stato, nel frattempo, costretto a fare ritorno in terra turca. La cosa più interessante da sottolineare è che la commissione d’appello dice chiaramente che la Turchia non si possa considerare un «paese terzo sicuro», e che quindi la richiesta in questione dovrà essere esaminata nuovamente, con molti più dati e dettagli.

Una procedura che richiederà certamente del tempo, ma la questione potrà avere ricadute ben più vaste. Considerare la Turchia un paese «non sicuro», potrebbe portare a rimettere in discussione – almeno in linea di principio – l’accordo dell’Unione europea con Ankara, nella sua totalità, tenendo conto che i diritti e le condizioni di vita dei profughi devono rappresentare una priorità assoluta.

A Lesbo, nel frattempo, il servizio preposto alla concessione dell’asilo ha esaminato centosettantaquattro domande di profughi e migranti siriani, cento delle quali sono state accolte. Si tratta di cittadini vittime di persecuzioni politiche e che fuggono dalla guerra, che si potranno stabilire, ora, nella Grecia continentale.

Come sottolinea la stampa greca, i restanti settantaquattro a cui l’asilo non è stato concesso, nel loro appello faranno ora chiaro riferimento alla decisione in questione, e alla Turchia come paese non sicuro, quanto a diritti umani, religiosi e delle minoranze. Ed è da considerare abbastanza probabile che la stessa logica, riguardo allo «status» della Turchia, venga applicata nuovamente, a più riprese, dalla commissione di appello competente.

Secondo gli ultimi dati ufficiali, in Grecia ci sono 54.230 profughi, e per ora, nella stragrande maggioranza, le espulsioni riguardano cittadini che sono arrivati in Grecia dopo l’inizio dell’applicazione dell’accordo Turchia-Ue e che non hanno presentato domanda di asilo. Nel campo di Idomeni, tuttavia, ci sono ancora più di novemila persone. Il responsabile del governo greco per la gestione di questo delicato dossier, Jorgos Kyritsis, ha fatto sapere che entro due settimane dovrebbero poter essere tutti trasferiti in altre località, sempre nel Nord della Grecia, con nuove strutture ricettive.

Quanto alle condizioni di vita dei profughi, la Commissione Europea ha deciso ieri di concedere alla Grecia un sostegno di cinquantasei milioni di euro (ben poca cosa rispetto ai sei miliardi della Turchia) per velocizzare le pratiche di identificazione, ricezione delle domande di asilo e per migliorare le strutture ricettive. Complessivamente, dall’inizio del 2015, Atene ha ricevuto duecentotrentasette milioni di euro come aiuti urgenti per l’emergenza migranti e per l’assistenza ai profughi.

In questo contesto, ieri mattina si è conclusa anche la procedura di «rimpatrio volontario» di ventidue migranti e profughi dalle isole dell’Egeo settentrionale in Turchia. Il dato numerico mostra chiaramente come la volontà della stragrande maggioranza delle persone che si sono lasciate alle spalle guerre e persecuzioni è di poter rimanere in Europa, nella speranza di potersi costruire un futuro libero e dignitoso.

Lunedì, infine, Alexis Tsipras incontra a Istanbul il presidente turco Erdogan , ed è ovvio che al centro del colloquio ci sarà la questione dei profughi e l’attuazione dell’accordo tra l’Unione europea e Ankara. Atene è in qualche modo obbligata a tenere aperta la via del dialogo, dal momento che è ben chiaro come la Turchia stia usando la carta dei profughi per ottenere sempre maggiori concessioni dall’Europa, e che il primo paese a pagare le conseguenze di nuovi flussi, incentivati dai turchi, sarebbe, ovviamente, la Grecia.

Dall’altra parte, tuttavia, secondo fonti governative greche, c’è anche una palpabile preoccupazione per le future mosse del «neo-sultano» di Ankara, specie dopo l’allontanamento dell’ex primo ministro Davutoglu – in carica solo per gli affari correnti – il quale sembrava provare a controbilanciare le sempre più forti pulsioni antieuropeiste del suo paese.