L’appuntamento è al mattino, abbastanza presto, l’ultimo giorno della Mostra, i Leoni sono soltanto supposizioni anche se il suo The Woman Who Left, La donna che partì, protagonista la magnifica attrice Charo Santoso Conchos, è stato da subito il Leone d’oro di questa 73esima edizione.

Non è la prima volta che il regista filippino, tra i più carismatici autori contemporanei, presenta i suoi film al Lido – ma è la prima volta in concorso – anzi è qui (e un po’ al Festival di Rotterdam) che abbiamo scoperto i suoi eroi tragici e epici, racconto sfaccettato di un Paese, le Filippine, della sua Storia e del suo presente, lungo quel filo di colonialismi, sopraffazioni di classe, spaesamenti culturali e ammaliamento cattolico che attraversa i secoli. E al tempo stesso, invenzione di un cinema che è spazio, tempo, chiaroscuri, emozionali e politici, le geometrie del potere e la sua assuefazione.

«La donna che partì» è quasi un on the road anche se non si sposta mai, se non nel finale, dall’isola di Mindanao dove è ambientato.

Tutti i personaggi del mio film cercano qualcosa: Horacia la vendetta, un desiderio che prende il sopravvento a lungo sulla sua promessa di ritrovare il figlio scomparso mentre lei era in prigione. Hollanda, la transessuale, la morte come gesto estremo contro una società che l’ha massacrata, e insieme una redenzione. La giovane mendicante, la salvezza dai demoni che vede in ogni persona intorno a lei. Per questo il cammino di Horacia e degli altri che incontra lungo la strada diviene una ricerca emozionale, una sorta di viaggio dell’anima.

A un certo punto ho pensato che Hollanda potesse essere il figlio perduto di Horacia. Nessuno era stato in grado di rintracciarlo perché aveva cambiato sesso…

Metaforicamente può essere così, la relazione che nasce tra loro è anche di filiazione, il personaggio di Horacia se ne prende cura, la soccorre quando viene aggredita e quasi ammazzata. Hollanda è una persona molto egoista, concentrata su di sé ma nell’incontro con Horacia, che invece si preoccupa molto degli altri, cambia al punto di sacrificare la propria vita per compiere al suo posto la vendetta contro l’uomo responsabile di averla mandata in prigione da innocente.

Anche la figura di Horacia però non è lineare, esprime toni ambivalenti. Può essere una pia donna di giorno e la notte trasformarsi in un tomboy capace di picchiare,aggredire, compra una pistola, si nasconde.

Volevo che questo personaggio attraversasse diverse trasformazioni, è il suo modo di creare ordine nel disordine proprio come le storie che ama raccontare. È stata un’insegnante, è una narratrice, l’invenzione di altri mondi l’aiuta a sopravvivere. La dimensione narrativa è infatti quella che ci permette di chiarire il nostro pensiero e di dare all’esperienza personale la giusta distanza che la rende condivisibile con gli altri. La vita di Horacia ci conduce nella realtà che vivono molte persone nel mio Paese e, al tempo stesso, ci dice cosa accade quando un individuo cerca di opporsi alla sua condizione.

La chiesa è una presenza molto forte in questo e in ognuno dei tuoi film. Più che di fede sembra una questione di potere: chiesa, ricchi e politici appaiono alleati nell’oppressione della gente.

Ma questa è la storia delle Filippine dove l’imposizione della cristianità e della colpa collettiva è stata sempre lo strumento con cui impedire alle persone di pensare, di porsi delle domande. Entrambi sono concetti astratti però garantiscono il ruolo della chiesa, il suo controllo sociale. Il più grande problema nel mio Paese è l’ignoranza, è un muro che è impossibile distruggere. E che permette la vittoria di figure come Marcos, le persone si lasciano manipolare facilmente dalla demagogia dei politici e l’aspetto più doloroso è che non si rendono conto di essere loro le vere vittime di tutto questo. Purtroppo non accade solo nelle Filippine.

Tu hai avuto una educazione cattolica?

Sì certo, come tutti. Mia nonna era profondamente cattolica ma mio padre era socialista.Nel nostro paese è ancora attiva una lotta marxista anche se la prospettiva generale è quella cattolica. La gente è molto devota e non si interroga, crede.

Perché hai scelto il 1997 per ambientare il film? Ci sono delle informazioni che arrivano dai programmi radiofonici, è l’anno in cui Hong Kong torna alla Cina e Lady Diana muore…

E Madre Teresa di Calcutta che hanno santificato a Roma qualche giorno fa … Nel ’97 sono tornato nelle Filippine da New York dove lavoravo per un giornale. È un periodo molto complesso e caratterizzato da una forte violenza: tutto il Paese era scosso dai rapimenti che colpivano soprattutto i ricchi cino-filippini e i turisti. La ragione era quasi sempre la richiesta di un riscatto, molti di questi avvenivano nel Mindanao ma non erano ancora legati alle rivendicazioni indipendentisti dei gruppi islamici. La ragione era soprattutto la povertà.

Nel finale il film si sposta a Manila e il «teatro» in cui si è mosso fino a quel momento – la villa del potente cattivo, la chiesa, lo slum che verrà demolito – si trasferisce nell’anonimato di una realtà che è ugualmente attraversata da miseria e marginalità.

L’oscurità di Manila racconta anche molte battaglie, mi piaceva arrivare lì. Ma il viaggio della mia protagonista non finisce, e lascia aperto l’interrogativo che pone alla partenza, cioè come farcela in questo mondo. È un movimento circolare che esclude ogni possibilità di aiuto, che non crea un’apertura. Finché almeno non si comincia a reagire.