Continua ad essere propagandato il credo per cui la maggiore flessibilità possibile, sia in entrata che in uscita nel e dal mercato del lavoro, ovvero maggiore precarietà e libertà quasi totale di licenziamento, favorirebbero maggiori investimenti nelle attività produttive, all’interno e dall’estero, con la conseguenza di un amento dell’occupazione.

I fatti dimostrano il contrario. Infatti, a fronte delle politiche di austerità praticate dai governi Monti, Letta e Renzi, la disoccupazione in Italia è aumentata dal già alto 8,4% del 2010 e 2011 al 10,7% del 2012, crescendo ancora al 12,2 % del 2013, fino al 12,8% del 2014.
Né si può dire che compressione dei salari, riduzione del potere contrattuale dei lavoratori, misconoscimento dell’azione e rappresentanza sindacale abbiano favorito in alcun modo la crescita economica. Infatti, il Pil è andato calando negli ultimi anni fino a -1,9%.

In secondo luogo, occorre pur chiedersi se le misure d’austerità che colpiscono i lavoratori e le fasce più deboli della popolazione sono «sacrifici» necessari e utili per attrarre investimenti autoctoni e dall’estero. La verità è tutt’altra ed è dimostrata da fatti incontrovertibili.
Il fattore che più di ogni altro allontana investimenti dalle attività produttive ed è la causa principale della disoccupazione è la delocalizzazione produttiva.

Il fenomeno riguarda il nostro come gli altri paesi più sviluppati dell’area euro-atlantica e consiste nel fatto che, negli ultimi trent’anni e in misura via via crescente, gli imprenditori di questi paesi hanno delocalizzato quantità sempre più ampie dei loro investimenti e attività produttive in paesi in via di sviluppo in cui era e continua ad essere disponibile una grande riserva di forza lavoro a basso costo e sfruttabile al massimo grado, proprio in ragione delle condizioni d’arretratezza sociale e dei forti squilibri che li caratterizzano. E non c’è dubbio che proprio le politiche neoliberiste affermatesi negli Usa e in Europa occidentale hanno supportato il massiccio fenomeno della delocalizzazione produttiva. Dall’altro lato, i paesi destinatari di tali investimenti si sono fatti partner volenterosi del neoliberismo imperante, rinunciando a controlli statali e incoraggiando privatizzazioni pure in settori strategici, come energia, trasporti, ecc.

Anche la forte automazione produttiva e l’informatizzazione dei servizi consentite dalle applicazioni della microelettronica hanno comportato non solo tagli drastici di manodopera nei paesi più sviluppati. L’automazione spinta ha consentito un impiego molto maggiore di manodopera non qualificata e intercambiabile, favorendo ancor più la delocalizzazione nei paesi del Sud del mondo.
Il risultato di questi fenomeni è sotto gli occhi di tutti. Le imprese transnazionali, grandi, ma anche medie, che chiudono stabilimenti e riducono attività terziarie in Italia come negli altri paesi di più antico sviluppo non fanno altro che delocalizzare in Cina, India, Indonesia e altri paesi asiatici, negli ex paesi socialisti, in America Latina, in Sudafrica e ovunque sia conveniente.

Ma ciò che sfugge è l’entità macroscopica del fenomeno. Basti dire che gli investimenti diretti all’estero, che nell’Italia del 1990 ammontavano al 5,3% del Pil, nel 2013 sono saliti a ben il 29% del Pil. In Francia, sempre dal 1990 al 2013, la delocalizzazione produttiva è cresciuta dall’8,8% a ben il 57,2% del Pil. Nella pur lodatissima Germania, gli investimenti di imprese tedesche all’estero sono saliti dal 7,6% del Pil nel 1990 a ben il 45,3% nel 2013. Per non dire della Gran Bretagna, i cui investitori hanno impegnato capitali all’estero – e si parla sempre di imprese non finanziarie – per un ammontare del 23% del Pil nel 1990 e addirittura al 74,3 % del Pil nel 2013. Anche negli Stati Uniti la spinta centrifuga è nettamente prevalsa su quella centripeta. Infatti, la delocalizzazione produttiva equivalente al 19% del Pil nel 1990, è più che triplicata nel 2013.

Tale emorragia di capitali non è stata affatto compensata dalla quantità d’investimenti provenienti da tutto il mondo in ciascuno di quei paesi, per quanto economicamente tra i più sviluppati. Tant’è che in tutti i paesi menzionati il totale dei capitali provenienti dall’estero è stato costantemente inferiore all’ammontare di quelli in uscita. Sicché, ad oggi, i primi non superano il 60 massimo 70% dei secondi.
Stando così le cose, invocare le politiche di austerità e imporre duri sacrifici alla maggioranza della popolazione con lo scopo dichiarato che ciò serve per attrarre investimenti e far crescere produzione e lavoro non corrisponde alla realtà. In parole povere, ci troviamo di fronte ad un inganno dell’opinione pubblica per perpetuare politiche neoliberiste il cui unico effetto è di continuare a drenare ricchezza dal basso verso l’alto.

Per avere le idee ancor più chiare sulle conseguenze del fenomeno, basti fare un breve calcolo (basato sulla legge di Okun). Le cifre prima menzionate sul livello della delocalizzazione produttiva raggiunto nel 2013 nei maggiori paesi europei e negli Usa corrispondono a quantità enormi di posti di lavoro mancati. Si tratta di 2.613.000 in Italia, 5.890.000 in Francia, 7.391.000 in Germania, 8.883.000 in Gran Bretagna, 19.191.000 negli Stati Uniti!

Il rapporto non può essere inteso in modo troppo stretto o automatico, ma è indicativo dell’entità del fenomeno e serve a dimostrare alcuni dati di fatto.
La disoccupazione nei paesi di più antico sviluppo è dovuta massimamente alle scelte affatto spregiudicate e unilaterali dei grandi gruppi imprenditoriali e finanziari. Tali scelte sono state permesse da politiche governative di completo laissez faire.

Viceversa, un serio impegno contro la disoccupazione richiede misure di controllo e limitazione di una delocalizzazione selvaggia. Misure che, se ben calibrate, costituirebbero necessari ed utili strumenti di un’avveduta politica industriale. E’ arrivato il momento di smetterla col far credere che politiche di austerità e «sacrifici» servano ad attrarre investimenti mentre si assiste imperterriti al loro esodo massiccio.