Esposte nel Giardino della biodiversità dell’Orto Botanico di Padova, le oltre trecento litografie che costituiscono i Phénomènes di Jean Dubuffet creano una potente sinergia con le forme di vita vegetali dei diversi biomi della terra che prosperano nelle nuove serre inaugurate lo scorso anno. Opere della terra, dell’aria, dell’acqua e del fuoco, prima di tutto, e dunque di ciò che gli antichi naturalisti chiamavano l’«interno delle cose»; e ancora: opere di ombre e di luci, di momenti, distese ed estensioni, di generazione e corruzione della materia, ma anche di ricerca, misura e classificazione, di spettacoli, inusitati sentieri, suoni inarticolati e silenzi. La mostra intitolata Il teatro del suolo. Jean Dubuffet e i Phénomènes, curata da Nicola Galvan e visitabile fino al 31 ottobre, propone l’integrale delle tavole realizzate tra il 1958 e il 1962.

dubu
Dubuffet nel 1976, Archives Fondation Dubuffet, Paris,

Energie da sprigionare

A metà degli anni Quaranta, Dubuffet dava scandalo per la sua «deliberata goffaggine», per il gesto irriverente, provocatorio e individualistico con cui si scrollava di dosso le regole e i valori condivisi dell’arte, per la riconsiderazione del caso, per il rifiuto di ritenere un privilegio il saper dipingere e la convinzione che chiunque potesse produrre arte, ma anche per la scelta di lavorare con materie che – a suo dire –, più che sottostare alle intenzioni dell’artista, sembravano possedute da forze e volontà proprie. D’altronde – a metà degli anni quaranta del secolo scorso, in Francia, quando iniziò a esporre suscitando una certa attenzione –, era in buona compagnia. Basti citare i nomi di Jean Fautrier e soprattutto di Antonin Artaud e Henri Michaux, per evocare una temperie e un approccio alla pittura e all’arte in generale di straordinaria intensità.

Per Dubuffet la cultura è «nociva» perché non è soltanto «materiale d’informazione», quanto piuttosto «un modo di esprimersi e di pensare, un modo di vedere, di sentire e di comportarsi». E per decostruire questo sistema, nel tentativo cioè di porsi al di qua delle partizioni concettuali definite, per scoprire su che cosa si basavano e come funzionassero le distinzioni e i confini stabiliti – che costituivano, di fatto, un «surrogato» alla «libera cultura» – si era volto all’Art Brut, all’arte dei bambini e dei malati di mente, agli anormali, dunque, per «aprire il passaggio alle voci che vengono dagli strati sottostanti».
Verso la fine degli anni Cinquanta, quando comincia l’avventura dei Phénomènes, Dubuffet ha già alle spalle un consistente lavoro sulla materia che inevitabilmente va a investire, tra l’altro, anche la nozione stessa di immagine. La vocazione materica, infatti, si scontra con tutto ciò che caratterizza la forma fino a metterla in discussione da dentro. Difficile parlare di proporzione o di simmetria quando si assembla del fango o un pezzo di muro sbrecciato; il carbone, il gas, i muschi e i licheni, per non citare che alcuni tra i tanti materiali utilizzati, diventano il soggetto di un’esplorazione incessante dove la sorpresa è continua e l’investigazione quasi scientifica. Ebbene, i Phénomènes nascono come scorta di materiale per gli assemblages, fino a quando – a un certo momento – Dubuffet si accorge che queste litografie, in bianco e nero e a colori, bastano a se stesse.

dubuffet_pagina_interna_0
Che cosa sono innanzitutto? Sono impronte prese da materiali diversi su carta da riporto inchiostrata. Ma qual è la natura di tali impronte?
Si tratta, più specificamente, di quanto i filosofi medievali chiamavano vestigium, e cioè la traccia – etimologicamente la suola o la pianta del piede – che, se indubbiamente testimonia la presenza, in questo caso, del materiale di cui è l’impronta, non ne rende tuttavia l’immagine, in quanto essa non ridà la figura di ciò che l’ha prodotta come sarebbe il caso, ad esempio, dei segni che rappresentano la specie: la figura dipinta di un gatto, per esempio. San Tommaso diceva che «sebbene l’immagine supponga la somiglianza, non ogni somiglianza è un’immagine». Ebbene, questi lavori sono somiglianze senza immagini dei diversi elementi, materie e processi di cui sono le vestigia.

È così che Dubuffet, in quegli anni, minava il precario equilibrio tra la materia e la forma, lavorando nel punto di contatto – e dunque nella prossimità e nella separazione – tra l’astrazione e la figurazione. E se in queste litografie è evidentemente l’informale a occupare la scena in un insistito esercizio di de-figurazione, ciò non significa che vi sia in lui un partito preso contro la figurazione. Di lì a pochi anni, infatti, con il ciclo dell’Hourloupe, cominciato nel 1962 e proseguito per circa due decenni, egli affronterà il versante opposto, ossia il segno invece della materia, una proliferante scrittura libera dalla servitù del significato in una sorta di ipercrescita inflattiva, che diventa non solo pittura, ma anche scultura e precaria architettura, giungendo tuttavia a esiti tali di complessità e pervasività – a partire dall’indecidibile rapporto tra figura e sfondo – da poter essere descritti in termini di piani e superfici plurimi, grovigli, tracciati, germinazioni e textures, i quali finiscono paradossalmente per evocare indirettamente il caos della materia e dell’informe.

Nelle opere degli ultimi anni poi – dalla metà degli anni settanta fino alla morte – la cosa si fa, se possibile, ancora più scoperta con i Lieux abrégés e l’espandersi del colore, ma soprattutto con le Mires e i Non-Lieux, dove pur predomina il segno e nondimeno niente è più identificabile e tutto muta e si trasforma in un dinamismo incessante. In effetti, vi è nell’opera di Dubuffet una continua estenuazione e co-implicazione degli opposti (materia-forma, astrazione-figura, realtà-immaginazione), con accenti diversi a seconda dei periodi e delle tecniche utilizzate. Lo stesso contrasto umano/inumano – che nei Phénomènes è giocato a favore del secondo, a differenza di altri momenti del suo percorso (su tutti, ma non solo, Grand Jazz Band (New Orleans) del 1944 e i Corps de dames del 1950-51) – non deve far dimenticare la forte continuità ripetutamente affermata tra il fisico e il mentale, tra la distesa delle cose e le fisionomie dei volti.
In un saggio del 1957, Dubuffet scrive: «Il nostro universo è continuo, la stessa uniforme broda è come un mare omogeneo in cui puoi affondare il cucchiaio nel primo punto che ti capita». Ecco allora l’esercizio di concentrazione su ciò che è già qui, l’attenzione nei confronti del banale, la fascinazione per la stratigrafia del mondo, il gusto per la sorpresa, il sovvertimento e la risata, ma anche, d’altra parte, la sottile inquietudine che caratterizza le sue opere.

In lotta per la forma

Ora, questa eccentrica relazione tra divergenti è confermata nei Phénomènes dall’acribia e dall’impegno con cui Dubuffet ha dato un nome a ciascun portfolio e a ciascuna litografia. Una forsennata, e spesso poetica, volontà di nominazione sottilmente violenta – com’è, in fondo, ogni nominare – che tenta di enucleare un’identità là dove a prima vista regna una quasi assoluta indeterminazione. E se per un verso, specie nelle denominazioni delle cartelle, si mira il più delle volte a descrivere (La terre et l’eau; Sols, terres), nelle singole litografie il rapporto titolo/opera diventa maggiormente allusivo, energico e sconcertante (Mur mystique; Le pain du sol).

Ma nei Phénomènes non si tratta solo di impronte. Non utilizzando mai il pennello e la matita – viene così ribadito ancora una volta, nel pieno dell’utilizzo di un procedimento riconosciuto e raffinato come la litografia, lo scarto rispetto all’«asfissiante cultura» –, Dubuffet scrive di aver lavorato anche miscelando elementi diversi sulla lastra litografica, utilizzando l’ossidazione, le fessurazioni di vernici, riscaldando con la fiamma la polvere di resina direttamente sulla pietra.

È l’aspetto propriamente alchemico di un artista fortemente interessato alla trasmutazione della materia, al processo, allo sviluppo e alla trasformazione dell’inorganico che peraltro viene ad assumere così, per analogia, i caratteri della vita.