Un anno fa, il brillante vignettista dello Charlotte Observer disegnò una Hillary vestita da graffitaro che nottetempo scriveva «TRUMP» su un muro. Le primarie dei repubblicani non erano ancora cominciate, c’erano una dozzina di candidati in pista, ma il disegno illustrava meglio di qualsiasi editoriale la strategia della candidata democratica: fare delle elezioni 2016 una replica di quelle del 1964.

Cos’era successo nel 1964? Semplice: un candidato democratico serio, affidabile, di lunga esperienza in Congresso (Lyndon Johnson) si trovava ad affrontare un candidato repubblicano emerso dalle primarie, anti-establishment, pieno di idee bizzarre e apparentemente pronto a sganciare bombe atomiche sui russi tanto per mostrare chi comanda nel mondo (Barry Goldwater). E, ieri come oggi, i razzisti uscivano dalle loro tane per sostenere il candidato xenofobo, provocatorio, che piaceva all’estrema destra (la John Birch Society nel 1964, Breitbart News nel 2016).

Risultato finale: 61% a 38,4% per i bravi ragazzi, 15 milioni di voti in più per Johnson rispetto a Goldwater. Logico che Hillary speri in un remake del duello di 52 anni fa, che fece entrare nel lessico politico americano la parola landslide, una vittoria con una valanga di voti. Per i democratici, che con Obama hanno già fatto due mandati alla Casa Bianca, un repubblicano “normale” come Jeb Bush sarebbe stato più pericoloso, o almeno così pensavano.

Fino alla settimana scorsa questo scenario sembrava seguito alla lettera, con un Donald Trump capace di offendere per una ragione o per l’altra tre quarti degli elettori: le donne, gli ispanici, gli immigrati, i musulmani, perfino l’esercito, che è l’unica istituzione in cui gli americani abbiano veramente fiducia. Nessuna sorpresa, quindi, nel constatare che appariva lontanissimo nei sondaggi e che i media iniziassero a discutere della sua sconfitta come inevitabile e di quanto avrebbe pesato sui risultati del partito repubblicano in Congresso.
Purtroppo per i democratici le cose sono più complesse di quanto non sermbrino e il 1964 è lontano non solo dal punto di vista temporale ma anche da quello politico. Mezzo secolo fa gli Stati uniti godevano ancora del boom economico postbellico, che aveva incluso nella classe media milioni di lavoratori delle acciaierie, delle fabbriche automobilistiche, dell’edilizia. New York, Pennsylvania, Michigan e Illinois, quattro stati sindacalizzati, erano anche i più popolosi, garantendo ai democratici un vantaggio di partenza significativo nel collegio elettorale.

Oggi nel settore privato le Unions non esistono più, il salario medio dei lavoratori senza laurea è inferiore a quello del 1968, decine di milioni di americani si sentono abbandonati dalle élite e detestano il governo federale. Dei tre stati più popolosi, il Texas è un feudo repubblicano, la Florida ha avuto governatori repubblicani ininterrottamente dal 1999, è sempre in bilico e solo la California ha un’affidabile maggioranza democratica.

Ma la ragione principale per cui il 2016 è diverso dal 1964 e Donald Trump è un candidato più forte di quanto non si creda è la polarizzazione politica: negli anni Sessanta e negli anni Settanta molti elettori erano disposti a votare il candidato più che il partito. Il cosiddetto Split Ticket, sostenere un presidente democratico e un senatore repubblicano, o viceversa, raggiunse il massimo storico nel 1972, quando un terzo degli elettori fece questa scelta. Dagli anni Novanta in poi le elezioni si sono fortemente “nazionalizzate”, si vota per il partito più che per il candidato: il voto disgiunto era il 24% nel 1992, il 19% nel 2000, il 17% nel 2004 e appena il 10% nel 2012. In sostanza: gli elettori repubblicani votano per il loro candidato, chiunque esso sia, e i democratici fanno altrettanto.

Non c’è da stupirsene: la polarizzazione ha portato gli americani a vedere il partito opposto non come una formazione politica con idee diverse per il paese, ma come una minaccia: metà dei repubblicani e il 55% dei democratici hanno paura degli avversari, un terzo di ciascun gruppo considera chi in politica la pensa diversamente semplicemente «stupido», come risulta da una recente indagine Pew.

In questo quadro, aspettiamoci che nelle prossime settimane la distanza tra i due candidati si riduca (già nei sondaggi di questa settimana il divario tra Clinton e Trump si è ridotto a quattro punti percentuali, poco più del margine di errore statistico) e che Trump, se riuscirà a mantenere il profilo di un candidato “nornale”scelto dai suoi nuovi consulenti politici, nelle urne vada meglio del previsto. I pronostici per l’8 novembre sono ancora per una vittoria democratica ma non per una valanga di voti a favore di Hillary.