Una donna trascinata di peso dai poliziotti che la tengono per le braccia e i piedi. Un’altra in lacrime “scortata” dall’ufficiale dei carabinieri fino al cancello. Le 26 marocchine, licenziate dalla coop Libera in presidio permanente dall’8 dicembre al capannone della Nek dove si “riciclano” i rifiuti grezzi della plastica, urlano e protestano. Stefano Fonsi, dirigente della Digos, non si scompone nemmeno quando i celerini circondano un gruppetto di operaie in ginocchio: «Facciamo così per tutto il giorno…».

Ma lo sgombero, scattato in mattinata, non riesce. Una decina di donne (fra cui una incinta) salgono sulla “vetta” delle enormi pile di materiale trattato a beneficio del Corepla di Milano. «Mai più schiave delle coop», dice il loro striscione. E la resistenza continua. Infagottate, senza cibo né acqua, esposte a vento e umidità non si schiodano per tutto il giorno. Così in serata le forze dell’ordine lasciano la zona industriale di San Bortolo. E il drappello di donne rimane all’interno della Nek, ma senza più l’accesso al container che serviva per poter dormire al caldo. Con loro, di nuovo, non solo Adl Cobas con la rete di solidarietà della Bassa padovana e il consigliere comunale Francesco Miazzi.

Il caso rimbalza ancora in parlamento. «Trovo assolutamente sbagliato che lo Stato si attivi per sgomberare la lotta di chi tenta di far valere i propri diritti, anziché intervenire per imporre un accordo a una coop che si dichiara in buona salute economica e finanziaria. Avevo avuto modo di portare la mia solidarietà alle donne impegnate nel presidio. Mi chiedo anche cosa pensi Confcooperative di aderenti come Libera Scrl, il cui rispetto per i soci lavoratori è tutto da dimostrare», afferma Giovanni Paglia (Sinistra Italiana), che preannuncia un’interrogazione al ministro Alfano.

Nel braccio di ferro, sindacale e politico, è in gioco l’immagine del Nord Est che “produce” senza troppi scrupoli. Soprattutto quando si tratta di “imprese” cresciute lungo la linea d’ombra fra terzo settore e business, economia “verde” e autosfruttamento, nicchie pubbliche e interessi individuali. Come Libera che coincide con il profilo ultrà di Marco Zese, 54 anni, di Santa Maria Maddalena, frazione di Occhiobello, nel Polesine eternamente depresso. È il padre-padrone di una coop sventagliata dalla logistica alle pulizie industriali fino alla gestione dei rifiuti. Le 26 marocchine di Monselice si sono ribellate, hanno scioperato, preteso dignità? Zese le ha denunciate, cancellate dall’elenco dei soci lavoratori e per Natale ha regalato alle loro famiglie un bel pacco di disperazione.

«Ci hanno tolto soldi dalla busta paga senza motivo: hanno rubato loro e puniscono noi! Ma l’avevamo promesso e manteniamo. Chi tocca una di noi, tocca tutte. E da qui, che è casa nostra, non ci muoviamo» fa sapere via cellulare Souad Ouafi, 38 anni, tre figli, che alla Nek lavora da dieci anni infilando le mani in ogni genere di scarto. Fuori dai cancelli, si sono precipitati anche gli avvocati di Adl Cobas.

Monselice potrebbe essere solo l’inizio: la “rivolta sindacale” non è ammissibile nel Veneto sussidiario. Il 19 gennaio in Regione l’assessore Elena Donazzan – già protagonista dei libri messi all’indice come di tante esternazioni mussoliniane – ha coordinato il summit con la Provincia di Padova, Cgil, Cisl e Uil, Legacoop e le società Prix, Despar-Aspiag Service, Trasporti Romagna-Mg Service, Alì e Unicomm culminato con la lettera ufficiale ai sette prefetti. Un appello comune alla “legalità” perché sia garantita «l’agibilità dei siti di produzione della grande distribuzione e si prevengano le mobilitazioni non regolari, o non autorizzate». In sostanza, una vera dichiarazione di guerra a chiunque non accetti il sistema della logistica grigia e la cogestione del lavoro migrante, e non, da parte delle coop di fiducia.