Alfredo Bini che resterà per sempre famoso nella storia del cinema come produttore di Pasolini, negli ultimi anni della sua vita fu anche assiduo collaboratore di Alias. Di questo non parla il bel documentario Alfredo Bini ospite inatteso di Simone Isola (distribuisce Istituto Luce Cinecittà) che sarà presentato alla Mostra di Venezia tra i documentari dedicati alal storia del cinema nella sezione classici, ma vogliamo ricordare questa collaborazione perché tra le nostre carte dovrebbe esserci anche un suo scritto, un trattato che all’epoca ci sempbrò pura follia, il futuro del cinema attraverso la diffusione satellitare. Era sempre avanti.
Tutto questo accadeva negli ultimi anni della sua vita quando, impoverito e senza più progetti che si potessero attuare fu accolto un giorno del 2001 con amichevole simpatia e sostegno che si rivelerà duraturo da Giuseppe Simonelli padrone del Motel Magic di Montalto di Castro. Racconta Simonelli che si trovò di fronte questo simpatico signore di una certa età che aveva trovato la serratura cambiata nella casa di Capalbio, praticamente buttato fuori di casa, e gli chiese una stanza per due o tre giorni, poi per più tempo e lui, che aveva capito in che acque si trovava, gli mise a disposizione una dependance. Lì visse fino alla sua morte e, nelle scene finali si vede che tutte le sue cose, le sue carte, fotografie e oggetti sono state conservate con cura, come vivesse ancora lì. Ripercorrere la sua vita e le sue avventure faranno entrare lo spettatore della Mostra nel clima perfetto per poter capire cosa si muoveva in quegli anni dietro la macchina produttiva e conoscere un personaggio eccezionale. Il produttore di un tempo degno di questo nome aveva come arma segreta il suo fascino, il suo fiuto, la sua capacità di convinzione e di creare dal nulla. Così riusciva a convincere chiunque, come raccontano innumerevoli aneddoti («avanti i leoni!») che le maestranze si tramandano. «Il segreto dell’arte del cinema è l’arte di trovare i soldi per fare cinema» afferma in modo lapidario Bernardo Bertolucci in apertura del documentario. La censura e poi una serie di delusioni portarono infine Alfredo Bini ad allontanarsi dal cinema e da tutto negli ultimi dieci anni della sua vita.
Sempre elegante con il suo soprabito e quell’aria «da livornese pieno di vitalità e di allegria», entra nel cinema arrivato nel dopoguerra a Roma alla stazione Termini dove un capocomparse lo assolda come «egizio» (perché era alto, mentre sceglieva gli etiopi tra quelli bassi) per un film in costume, poi fa il trovarobe fino a diventare in breve direttore del teatro Ateneo. Nel frattempo si laurea in medicina. Esordisce nella produzione on grande clamore, un film visto come un affronto alla virilità nazionale con il Bell’Antonio di Bolognini, uno degli scandali che punteggiano la sua carriera, allusione all’impotenza del protagonista del romanzo di Brancati interpretato da Marcello Mastroianni. Ma non si trattava solo di discussioni, arrivò una lettera del ministro che gli comunicava che essendo il film disdicevole per il popolo italiano non avrebbe mai avuto il visto di censura e la nazionalità italiana. Naturalmente Bini andò avanti lo stesso.
Il documentario è movimentato dai materiali delle teche Rai, dalle interviste a critici e maestranze, registi e attrici (Claudia Cardinale), lo vediamo raccontare diversi momenti picareschi della sua carriera. Momento clamoroso è aver creduto in Pasolini, averlo incoraggiato a fare Accattone. Infatti Fellini dopo aver visto il primo girato consigliò Pasolini di lasciar perdere il cinema, di continuare a scrivere lasciandolo in uno stato di grande depressione. Il racconto del sostegno continuo dato al poeta culmina con il più straordinario dei titoli di testa del cinema italiano, un incipit cantato da Modugno, musicato da Ennio Morricone che tutti conoscono: «Alfredo Bini / presenta / l’assurdo Totò / l’umano Totò / il matto Totò / il dolce Totò / nella storia / Uccellacci Uccellini / raccontata da Pier Paolo Pasolini…. »
Seguire la vita di Alfredo Bini è come tornare a rivedere tempi oscuri anche se ricchi e gloriosi del nostro cinema, dove emergevano in primo piano le battaglie politiche, i personaggi dall’anedottica sterminata – si scoprirà come alla fine Fellini boicottò varie volte il lavoro di Bini, non ultimo il rapido cambio di produttore per il Satyricon -, e con il suo inimitabile humour Gregoretti che fece parte del famoso Rogopag il film a episodi con Rossellini, Godard, Pasolini ne svela altri particolari. Un documentario tenero e battagliero.
L’altra faccia del cinema italiano, si potrebbe dire, quella dichiaratamente politica, di impegno civile è rappresentato dal ritratto di Lizzani che ne fanno Paolo Luciani, Cristina Torelli e Roberto Torelli (che ne cura la regia): Carlo Lizzani, il mio cinema, un lavoro di appassionata ricerca di materiali d’archivio (anche qui le teche Rai) realizzate per Moviextra che lo manda in onda il 15-16 settembre replicato anche il 16 su Raiuno). Inaugura alla Mostra di Venezia le serate «Il cinema nel giardino» il 3 settembre alle 21 con un incontro tra gli autori e Giuliano Montaldo, Piera Detassis, Giorgio Gosetti, Enrico Magrelli. Un filo diretto lega gli autori del documentario a Lizzani, un felice incontro di generazioni, lo si capirà bene quando il regista racconta l’eroico periodo della rivista Cinema in pieno fascismo, fronda altrettanto intransigente come lo sarà poi quella dei cineclub degli anni ’70 da cui gli autori provengono. Persino Visconti era intimidito dal gruppo severo della rivista tra cui spiccava Giuseppe De Santis che non aveva nessun problema a scrivere critiche poco benevole perfino su Un Pilota ritorna, un soggetto di Vittorio Mussolini sotto pseudonimo (e direttore della rivista). Facevano parte della redazione anche Pietro Ingrao diplomato al centro Sperimentale, Purificato e Licata, Lizzani che frequentava i Cineguf e in seguito Antonioni e Pietrangeli. Lizzani che fu direttore della Mostra dal 1979 al 1982 in quegli anni valorizzò la collaborazione con la nuova leva dei ragazzi dei cineclub, i giovani citici), racconta la sua vita che accompagna momenti drammatici della storia del paese, responsabile degli studenti romani come facente parte della cellula clandestina del partito comunista, testimone di episodi che riporterà nei suoi film, assistente di Rossellini e De Santis, parte del neorealismo che lui definisce un’unità di sentimenti più che di stili, e nei decenni successivi impegnato in tutte le battaglie politiche legate alla cultura. La storia di quelle drammatiche vicende storiche che sembrano tanto lontane sono raccontate dalla voce pacata da uomo di cultura di Lizzani (che nel finale si giudica «un regista minore» del cinema del ’900), un viaggio appassionante fatto di analisi storiche e cinematografiche.