«Ho cercato lungamente me stessa, volevo trovare qualcosa che mi avvicinasse alla realtà, ero tormentata ipnotizzata, appassionatamente incuriosita proprio dalla realtà. Afferrare quanto vi è di autentico, ecco cosa volevo. E ho assimilato all’istante questo genere, fatto delle voci di uomini e donne, di confessioni, testimonianze e documenti dell’anima delle persone. Sì, il mondo io lo vedo e lo sento proprio in questo modo: attraverso le voci e i dettagli della vita quotidiana e del vivere. La mia vista e il mio udito sono strutturati così. E tutto quello che avevo dentro si è subito rivelato utile, perché bisognava essere al tempo stesso scrittore, giornalista, sociologo, psicoanalista, predicatore».

La decisione dell’Accademia di Svezia di asseganre il premio Nobel per letteratura a Svetlana Aleksievic è prima di tutto un riconoscimento alla ricerca che l’intellettuale bielorussa, esule volontaria da più di dieci anni dal proprio paese, ha intrapreso da tempo nei territori della memoria e della lingua, considerati alla stregua di esseri viventi, pagine di un romanzo collettivo che è poi la storia stessa dell’umanità.

Per la scrittrice e saggista, che ha raccontato in uno stile che va ben al di là del giornalismo narrativo il secolo dell’homo sovieticus dalla Seconda guerra mondiale fino all’ascesa al Cremlino di Vladimir Putin, prima di tutto vengono gli esseri umani, la loro libertà e i loro diritti, ma anche il modo assolutamente soggettivo e irripetibile di attraversare la Storia, le sue contraddizioni e i suoi drammi che ciascuno porta con sé.

Sono perciò le emozioni, paure e speranze raccolte in centinaia se non migliaia di interviste e incontri, ad aver reso nel corso degli ultimi trent’anni le pagine dei reportage di Aleksievich palpitanti come romanzi, a volte drammatiche e intrise di orrore, a volte malinconiche e sottilmente ambigue come accade per i sogni che svaniscono con il fare del giorno.

Nata nel 1948 nella città ucraina di Ivano Frankivsk, da madre ucraina e padre bielorusso, Svetlana Aleksievic ha lavorato a Minsk dapprima come insegnante e quindi come giornalista. Nel 1985, con il suo libro La guerra non ha un volto di donna, dedicato al contributo dato dalle donne bielorusse alla Seconda duerra mondiale, e tutt’ora inedito in Italia, è entrata nel mirino delle autorità locali che l’hanno accusata di aver offerto una visione troppo realistica e dissacratoria della donna sovietica: malgrado la censura il volume ha però venduto più di 2 milioni di copie fino ad oggi. L’intervista con Svletana Aleksievic è avvenuta una manciata di giorni fa, quando l’autrice era in Italia.

Nell’introduzione al suo ultimo libro lei torna sul metodo che contraddistingue da sempre il suo lavoro, spiegando di aver raccolto «briciola dopo briciola la memoria» del suo popolo. Le persone che intervista appaiono come i protagonisti di un grande romanzo corale: come nasce questo stile di scrittura?

Credo che parta prima di tutto da un bisogno interiore. Alla base di ogni reportage come di ogni inchiesta che ho condotto in tutti questi anni c’è sempre stato uno scavo prolungato, un’immersione pressoché totale in ciò che stavo facendo. Prima di tutto ci sono perciò gli incontri con le persone da cui mi voglio far raccontare un deteterminato avvenimento o periodo e le interviste che realizzo con loro. Solo per fare un esempio, per quest’ultimo libro, a cui ho lavorato complessivamente per sette o otto anni, ho intervistato tra le 250 e le 300 persone, ho perso perfino il conto, mentre per La guerra non ha un volto di donna e Preghiera per Cernobyl’ avevo superato le 400 interviste. Quindi si tratta sempre di un lavoro enorme che viene poi tradotto nella scrittura, cercando di rimanere fedele, soprattutto alle emozioni di chi ho incontrato. Quello che posso dire è che non si tratta solo di dar voce ad una storia orale, di registrare e mettere in ordine signoli ricordi e spezzoni di memoria, ma di costruire un nuovo modo di scrivere, di comporre e di riuscire a raccontare le opinioni e le storie delle persone come se appartenessero ad un’unica grande narrazione. Da questo punto di vista credo si possa parlare di una nuova filosofia della scrittura e sono convinta che in effetti sia l’insieme dei miei lavori che ha per certi versi composto fino ad ora il romanzo corale a cui lei fa riferimento.

Con “Tempo di seconda mano” sembra concludersi il lungo lavoro, durato più di trent’anni, che lei ha dedicato a ricostruire la percezione che i cittadini sovietici, e oggi russi, hanno avuto della loro storia, dalla Seconda guerra mondiale fino all’ascesa di Putin. Quale la caratteristica peculiare a questa realtà che è emersa?

A proposito della realtà dell’Urss credo si possa parlare compiutamente di un mondo a parte, con la sua definizione del bene e del male molto diversa da quella dell’Occidente. Mettete a confronto due persone di 60 anni, l’una ex sovietica, l’altra occidentale, e vi renderete conto come abbiano vissuto fin dal loro primo giorno di vita in due universi che avevano davvero poche cose in comune: dal cibo ai film, fino alla loro visione della carriera lavorativa o dei rapporti umani era come se appartenessero a pianeti diversi. L’Homo sovieticus, l’interprete della storia che ho vissuto anch’io almeno fino ai trent’anni, era davvero molto diverso dal resto degli europei. E se si dimentica questo, si capisce davvero poco della Russia di oggi.

Nel libro lei cita la «Leggenda del Grande Inquisitore» di Dostoevskij per introdurre il tema della scarsa fiducia nella libertà che sembra emersa nella società postsovietica e che è incarnata dalla stella autoritaria di Putin, come sono andate le cose?

L’Urss non ci aveva certo abituati alla democrazia o a pensare con la nostra testa – uno degli intervistati mi ha raccontato che negli anni Sessanta, durante un viaggio organizzato a Berlino Est, la guida che era in realtà un uomo del Kgb decideva perfino se si potesse o meno mangiare un gelato per strada – e perciò anche il dopo regime ha colto molti impreparati. Le parole d’ordine della perestroika non erano sempre chiare, non tutti capivano cosa si dovesse mantenere e cosa gettare via del vecchio stile di vita. Poi, soprattutto, la democrazia non ha mantenuto le sue promesse sociali, non ha ridotto né la miseria né le disparità – spesso gli stessi ex dirigenti del Pcus che ne tessevano le lodi si arricchivano con le privatizzazioni e la corruzione.

Così, quando è apparsa una figura come quella di Putin, che non a caso viene dall’ex apparato sovietico, molte persone hanno avuto la sensazione che si stesse tornando ad un vocabolario conosciuto e rassicurante: quello che parla di un nuovo impero, della grandezza della patria russa, del fatto che Mosca deve seguire il proprio destino storico senza tener conto di quello che pensano gli altri paesi e che gli altri fanno bene ad aver paura di noi. Era questo il linguaggio che il popolo era abituato ad ascoltare da parte di chi deteneva il potere. E il tragico paradosso è che nel clima di incertezza degli ultimi anni è emersa, alimentata ad arte anche dal potere, una sorta di nostalgia per una storia sovietica dove si mescolano in realtà Stalin e lo Zar, il welfare e la potenza militare, le sicurezze perdute e un minaccioso nazionalismo.