Grazia e cultura sono doti che Enzo Moscato possiede in maniera impareggiabile. È incredibile come solo lui possa riuscire a trarre la grande Storia, l’essenza di Napoli e magari anche «ammaestramenti» di vita (validi per tutte le latitudini) dalla sua personale memoria di canzoni e motivetti che hanno accompagnato l’esistenza sua, e naturalmente di molti altri. È ovvio quindi che solo lui possa tessere un discorso affascinante e insieme divertente tra dialoghi e canzoni.

E lo fa in una cornice bellissima, contro il biancore dell’auditorium di Oscar Niemeyer, a conclusione del Ravello Festival. Lui, al centro del semicerchio dei dieci eccellenti giovani musicisti, entusiasti e imperturbabili davanti ai loro multipli strumenti. Tutti insieme danno luogo a Modo minore, che allarga il senso dell’espressione prettamente musicale alla misura e all’impegno con cui un simile patrimonio viene riproposto. Dello spettacolo sono previste alcune repliche, ma è doveroso ricordare che già domani, domenica, Moscato si concederà ad una delle rare sue apparizioni pubbliche, a Roma per Le vie dei Festival, con una antologia personalissima di tre suoi testi teatrali (alle 19 al Vascello).                                                                                

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I dialoghi di Modo minore sono in quella lingua così squisitamente sua che con molto understatement mescola latino e tedesco, inglese e soprattutto qualche perla linguistica partenopea, fino a costituire un idioma barocco di grande suggestione. Si passa senza traumi dalla Napoli del dopoguerra all’altro ieri, a ieri, e inevitabilmente a oggi. Anche se i decenni prescelti sono i 50, i 60 e i 70, l’infanzia collettiva di tutto il paese, tra Sanremi e Cantagiri. Pillole di saggezza spregiudicata che Moscato porge appunto con grazia risoluta. Del resto ai decenni precedenti era dedicato il primo spettacolo (e disco) di questo genere, il mitico Embargos.

Le canzoni che canta con il distacco consapevole di divi del grande cinema, sono titoli, nessuno casuale, che danno pennellate al vetriolo alla grande canzone napoletana, ma anche certe modernità inusitate oggi, come il juke box evocato da Sergio Bruni, o le molte facce di Carosone, Calise, e degli altri maestri di quel genere internazionalmente riconosciuto. Che oggi come ieri dai Quartieri spagnoli si diffondono per la penisola (come è successo poco fa ancora ad alcuni hit neomelodici). Anche se ad un tratto il focus si allarga alle canzoni «nazionali» da Bindi a Gaber a Tenco, con una predilezione che sgorga per la grandiosa Dalida, di cui evoca quel Bambinò che impose in Francia il Guaglione di Carosone.

Sulla musica certo è decisiva la collaborazione di un musicista come Pasquale Scialò, che quei motivi ha rivisitato per porgerli a Moscato,facendone un tessuto teatrale omogeneo senza perdere le peculiarità di ognuno. Una operazione non solo filologica, ma di notevole respiro culturale, destinata a prendere corpo in un disco di prossima uscita. E tra le riscritture di Donaggio e di Riz Ortolani, culmina in quel grido di guerra che era già un programma politico e culturale: Mandolino d’ ’o Texas.