Scriveva Galileo Galilei – in alcune sue pagine celeberrime dedicate ad Ariosto e Tasso, cioè ai due fuoriclasse del poema epico-cavalleresco rinascimentale – che il poeta della Gerusalemme liberata «empie le stanze di parole», mentre l’autore dell’Orlando furioso offre al suo pubblico una narrazione fatta tutta «di cose», l’esito di uno stile più equilibrato e meno «artificioso», di una più avvertibile misura. Quella che potremmo definire l’attenuazione classica di Ariosto è – lo sappiamo – uno dei più notevoli risultati della progressiva affermazione del diktat linguistico di Pietro Bembo, di una lingua che ha in Petrarca il suo padre forte, e che lascerà per secoli il suo segno indelebile sulla nostra letteratura. Per esempio sull’Orlando furioso del 1532, ossia sull’edizione che ha da sempre costituito il punto di riferimento per il depositarsi dell’opera nella memoria dei lettori, tramite quello splendido strumento lirico-narrativo che è l’ottava, affinata nell’arco di tre redazioni (1516, 1521 e, appunto, 1532).
Punto di vista mobile
È dunque un esercizio vitalmente ‘straniante’, e insieme molto suggestivo, tornare a leggere – in occasione del suo cinquecentenario – l’Orlando furioso secondo l’editio princeps del 1516 (2 voll., pp. XLVIII – 1400, € 120,00), pubblicato da Einaudi nella nobile serie dei «Classici italiani annotati», per le cure di Tina Matarrese e Marco Praloran. Un’edizione commentata che davvero costituisce il miglior modo per fare il punto, per portare in certo senso a compimento una stagione di studi che ha insegnato a guardare in maniera mobile e a spiare a fondo nell’officina ariostesca: basti pensare agli studi di Casadei sulle varie fasi redazionali del poema, a quelli di Jossa, Sangirardi e Cabani sulle dinamiche intertestuali che interessano il testo, allo spoglio linguistico di Vitale o all’edizione critica proprio del primo Furioso, approntata da Dorigatti esattamente dieci anni fa. Ma questa einaudiana è, al contempo, un’edizione «di lavoro», che permetterà ai prossimi interpreti ariosteschi di partire da fondamenti di indagine più saldi. Basti sfogliare anche il solo canto primo, entro cui il lettore può intanto ripercorrere l’esordio stesso del poema, aperto da un verso destinato a mutare nell’ultima redazione, una sorta di verso-sinopia: «Di donne e cavallier li antiqui amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto…», dove ancora mancano le più virgiliane «arme», che saliranno invece a testo nel ’32. E lo stesso canto d’apertura è l’occasione per dimostrare uno degli assunti di base dei curatori, esplicitato nella Premessa, cioè che «concepire la redazione del 1516 come un’opera a sé stante non significa ignorare le fasi successive», ma anzi costringersi a «continui riferimenti alle soluzioni» delle due versioni che seguiranno. Ecco dunque le note di commento esplicitare anzitutto le correzioni portate da Ariosto alla patina fono-morfologica: le vicende e le oscillazioni della lingua ariostesca sono qui perfettamente fotografate nel loro carattere ibrido, nutrito di latinismi come di regionalismi e fiorentinismi (e utilissimo appare l’Indice delle parole e dei fenomeni linguistici che chiude il secondo volume); ma sfruttati dall’esegesi sono anche certi più sensibili cambi di registro – il «caval», mettiamo, è mutato nel più eletto «destrier» nel ’32 – o certe ormai necessarie concessioni alla koinè lirica, come per l’«assalto» dell’ottava 59, che diverrà petrarchescamente «dolce» soltanto al terzo tentativo. In tal modo davvero annotare il Furioso del ’16 significa proporre «un commento all’opera in assoluto», alle tre forme del poema guardate sinotticamente.
Il taglio di Praloran
Nelle belle pagine dell’Introduzione – firmate dalla sola Matarrese – manca purtroppo la voce di Marco Praloran, prematuramente scomparso nel 2011. La sua mano sembra comunque piuttosto visibile laddove è più netto un punto di vista di taglio spiccatamente narratologico sul meccanismo del Furioso – cui Praloran aveva dedicato alcuni saggi importanti, come il suo Tempo e azione nell’«Orlando furioso» (1999) – o nei dintorni di certe osservazioni sui modelli arturiani, in fitto dialogo con il pionieristico studio di Pio Rajna sulle «fonti» del poema. Gli abbozzi di cappelli firmati dallo studioso sono peraltro ospitati nella loro veste originale, a mo’ di omaggio, sul più recente numero di «Stilistica e metrica italiana» (2016), rivista fondata dallo stesso Praloran nel 2001 e animata dal Gruppo Padovano di Stilistica. Insieme alle prove di commento, vi si leggono peraltro i riassunti dei singoli canti, che non hanno trovato posto nell’edizione einaudiana – sostituiti da sommari più snelli – nei quali sembra riemergere la sprezzatura, e la passione, con cui Praloran percorreva la trama del complesso intreccio ariostesco.
Il lavoro di Praloran si è interrotto al canto XIX. Non certo privi di attenzione alla «struttura» del testo sono comunque anche i cappelli che riguardano la seconda parte del poema, dal canto XX fino alla chiusa (si pensi alla tempesta che investe Ruggiero diretto in Africa, nel canto XXXVII, e all’analisi-lampo dell’uso molto connotato dei tempi verbali impiegati dal narratore nel pennellare la scena). Più in generale, il commento testimonia ottimamente il fittissimo dialogo intrattenuto da Ariosto con altri calibri, anche al di fuori della tradizione lirica, o di quella arturiana. Non ci sono, insomma, il solo Petrarca o i soli romanzi a fare da suggeritori: c’è fra il resto il Machiavelli del Principe, chiamato in causa da Matarrese nel canto XXXVI, il cui disprezzo per il ricorso alle «arme ausiliarie», agli eserciti stranieri, risuona nei versi affidati al consigliere Sobrino. Ma fascinoso è pure ricomporre le schegge di eventi contemporanei che filtrano nel testo, come le due battaglie che aleggiano sul poema – quella della Polesella e quella di Ravenna – e rivalutarne l’ambiguo impatto sulla scrittura. Gli spunti forniti da Francesca Borgo in uno dei saggi (Il Furioso e l’arte della battaglia: Ariosto immagina la guerra) raccolti nel catalogo della mostra ferrarese recensita qui a fianco, ci invitano intanto a considerare in effetti che Ariosto non tanto «vede» e conosce da vicino la battaglia, ma soprattutto ne fantastica, riplasmandola anche grazie al filtro della sua cultura figurativa. Un altro modo per ricordarsi allora – accingendosi a riattraversarlo – che nel Furioso accanto al vero continua a urgere il sogno, accanto alla storia l’immaginazione – così come il racconto e il libero piacere del suo fluire continuano a premere sotto le fatiche correttorie dello stile.