Una cosa sapevano bene gli intellettuali pagani della tarda antichità. L’espressero nel momento in cui cercavano di salvare il salvabile della propria tradizione di fronte all’avanzata (non priva di aggressività) del cristianesimo: «Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum»: per una sola strada non si può giungere a un segreto così grande, come quello dell’essenza divina (Simmaco, Relationes, 3.10). Ma nell’anno 384, quando venne proposta all’imperatore Teodosio per risolvere una difficile controversia, quella linea aperta e conciliante non si affermò, e nemmeno ebbe spazio nel più generale piano dell’evoluzione storica: prevalse di fatto «una sola strada», e inesorabilmente il politeismo scomparve dall’orizzonte dei credenti. A parte i provvedimenti di legge che restrinsero prima, vietarono poi il culto «pagano», il mutamento avvenne in modi vari. Ora lo si deve immaginare lento (i templi divennero poco frequentati, altri riti sembrarono «più forti» di quelli tradizionali, o rispondere meglio alle esigenze degli individui), ora invece in modo più brusco: ad Alessandria d’Egitto il grande tempio di Serapide fu distrutto dai cristiani nel corso di disordini nel 391. In uno dei suoi più intensi carmi latini, Giovanni Pascoli immaginò la fine di una splendida statua di Apollo sauroctono, custodita in un tempio ormai crollante: essa è finalmente fatta a pezzi dalla folla cristiana («Fanum Apollinis», 1904). Certo: dopo l’affermazione del «dio unico», Apollo non era, non poteva più essere un «dio», comunque si intendesse questo concetto, ma solo più un «idolo» da eliminare. Per molti, nel tempo, le divinità pagane divennero invece un’altra cosa: un aspetto del «mito», da raccontare nei libri, o da raffigurare in pitture. Ragiona su questo passaggio, e sulle sue conseguenze, il nuovo libro di Maurizio Bettini (Elogio del politeismo Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche, Il Mulino, pp. 155, euro 12,00).
Il punto di partenza è immediato: «fino dai suoi inizi il cristianesimo si è progressivamente costruito contro le religioni classiche», e le ha soppiantate (per ragioni certo molto complesse). Così esse sono sopravvissute non più come «religione» ma come «racconti», più o meno interessanti, pronti per letture allegoriche, antropologiche, psicoanalitiche… Di qui la sfida a ripensare sul serio il politeismo (termine da preferire al connotato e polemico «paganesimo») come sistema religioso, e a ricercare che cosa esso possa dire concretamente all’uomo d’oggi. Il punto forte, tematizzato sulla scorta degli studi di Jan Assmann, è il carattere esclusivo del monoteismo, che non può ammettere l’esistenza di altre entità divine. Sua conseguenza è l’insorgere della violenza religiosa, volta a estirpare il culto degli altri dèi, necessariamente «falsi e bugiardi»: esperienza ignota al pur cruento mondo antico. Quando, per esempio, il re di Siria Antioco IV «profanò» il Tempio di Gerusalemme nel 166 a.C. (sono gli avvenimenti narrati nei «Libri dei Maccabei») il suo punto non era di «negare» Yahveh, ma di affermare il proprio diritto ad avere un culto come re, e le violenze che seguirono contro i Giudei insorti furono repressione politica, non religiosa.
E per contro, molti secoli dopo, nell’impero di Roma, l’ostinazione dei cristiani a non svolgere il sacrificio previsto all’imperatore risultava presso che incomprensibile ai funzionari imperiali romani alle prese con una sgradevole questione: perché mai non si poteva chiamare (anche) «Giove» quel dio altissimo che i cristiani onoravano? La divinità ha tanti nomi, e forme! Vero è che però qualche volta quelli rispondevano che il loro dio era Cristo, e il povero proconsole non capiva più…
Resta sostanzialmente coerente, pur con le differenze storiche e culturali, il fatto che nell’antichità greco-romana gli dèi altrui, anche quelli adorati dai nemici, erano comunque dèi, e come tali andavano rispettati. Anzitutto gli dèi «degli altri» potevano essere «interpretati», ossia assimilati per analogia ai «nostri»: così fece Erodoto con gli dèi egizi, o Cesare con quelli celti, o Tacito con quello dei Giudei. Il rispetto si estendeva anche alle situazioni di guerra. Lo mostra il rito romano della evocatio, come lo descrivono gli antichi: «prima che la città fosse presa, gli dèi venivano ‘chiamati fuori’ per evitare sacrilegi: consideravano grande empietà catturare degli dèi». Anzi, gli dèi degli altri potevano essere integrati nel pantheon politeista, senza conflitto, purché il passaggio avvenisse con pubblico riconoscimento: ecco nei secoli della repubblica le cerimonie per l’«arrivo» a Roma di Esculapio o della Dea di Pessinunte. L’importante era che i riti stranieri non fossero «riprovevoli», come apparvero quelli di Bacco al Senato di Roma nel II secolo a.C., o quelli giudaici, secoli dopo, al senatore Tacito.
Il mondo greco-romano pare proporre insomma un concetto flessibile di divinità. Se verso l’esterno prevaleva l’atteggiamento «aperto», sorretto dalla consapevolezza delle tante forme del divino, verso l’interno contava soprattutto l’ortoprassi, il compimento scrupoloso dei riti previsti dalla tradizione. Anzitutto il sacrificio, esperienza ormai remota dalla percezione «nostra»: una pratica, come ha ricordato John Scheid, nella quale il fare e il credere si identificavano. L’inclusività permetteva di far convivere momenti diversi. Così, un buon ateniese poteva onorare Atena, ed essere contemporaneamente «iniziato» ai misteri di Eleusi, e Cicerone poteva essere parte dell’antico collegio degli «àuguri» e insieme coltivare la propria religione «filosofica»: essa aveva ormai compreso che uno è il principio, a cui gli uomini e la storia hanno dato tanti nomi. Né può mancare l’esempio più suggestivo del «sincretismo» antico, quello di un imperatore romano del III secolo, che secondo una fonte antica teneva nel proprio larario le statue di vari «holy men», come Apollonio di Tiana, Cristo, Abramo, Orfeo e altri del genere, insieme alle immagini degli imperatori divinizzati e ai ritratti degli antenati (Storia Augusta, Alessandro Severo, 29.2 e 31.5).
Con la sua riflessione sul politeismo antico Maurizio Bettini non vuole certo «convertire» nessuno (tra l’altro, la parola conversione non ha molto senso nella prospettiva della religiosità del mondo classico, che non concepisce l’assolutezza di tale passaggio). Il libro cerca di guidare il lettore a comprendere un modo «altro» di guardare la (anzi: le) divinità. Lo fa con una scrittura piana e un ragionamento pacato, parlando anche di presepi e catechismi, di riti e parole antiche, senza pedanteria. E anche su alcuni concetti stereotipi come identità e tolleranza, d’attualità e strettamente legati al tema religioso, vengono proposte riflessioni di peso, in qualche misura controcorrente. Sembra proprio vero che l’uomo antico, capace di tenere insieme senza conflitto più forme del divino, abbia qualcosa da «insegnare» ai contemporanei, se anni recenti hanno visto infiammarsi la Terra di conflitti religiosi di bruciante intensità. Vero è che quei conflitti risultano in definitiva poco comprensibili agli ormai tiepidi credenti dell’occidente, ammorbiditi da quello che viene riduttivamente detto relativismo e propensi, come giustamente si osserva, a forme di «bricolage» religioso lontano dall’intensità monoteista. Dietro c’è, forse, una crisi strutturale del principio autoritario implicito nella religione «del libro».