Vogliamo parlarvi ancora di Pasolini – e ancora ve ne parleremo – affidando a queste pagine notizie in un primo momento destinate a uno scritto sull’argomento organico, più unitario, anticipate dalla lettura dell’intervista a Graziella Chiarcossi apparsa su La Repubblica (30/10/2015). Nell’intervista Chiarcossi riferisce una notizia di cui eravamo a conoscenza da tempo: «Ero sveglia (la notte tra il 1° novembre e il 2, ndr) quando bussarono due agenti di polizia: cercavano Pier Paolo, mi dissero che avevano trovato la sua auto in via Tiburtina». Nell’intervista Graziella Chiarcossi squarcia un altro velo inciampando in un lapsus mentis allorché ricorda: «Ricordo la sua felicità quando prendeva in mano le seicento pagine del dattiloscritto (Petrolio, ndr)» testimoniando così, definitivamente, che lo scartafaccio originario, nelle mani dello scrittore, e prima della fantomatica scomparsa dell’appunto 21, conteneva ancora l’appunto dato poi per disperso. Esisteva, fu trafugato.

Antonio Pinna, autista della mala al soldo di Jacques Berenguer, che Pasolini frequentò a lungo come aedo di gesta criminali non se la sentì di sormontare il corpo dello scrittore. Lasciò l’onere a Giuseppe Mastini che, a dispetto della sua giovane età, guidava magnificamente. Eseguito il lavoro, Mastini restituisce l’auto a Pinna – un’automobile dello stesso identico modello – che si volatilizza. Si mette quindi alla guida dell’Alfa di Pasolini con accanto Pelosi. Fatte poche centinaia di metri, Pelosi ha un malore e fa cenno di fermare. Scende e vomita. Mastini ne approfitta per dileguarsi. Verrà fermato nei pressi di piazza Gasparri dai carabinieri Cuzzupé e Guglielmi. Ma non sul lungomare come ci hanno voluto far credere. I due militi sono comunque fuori zona operativa, lavorano infatti con mansioni impiegatizie al Ministero degli interni, solo saltuariamente vengono impiegati di pattuglia. Vivono ad Ostia, Cuzzupé in via delle Baleniere e, se non addirittura allertati per tempo, sono stati avvisati dall’auto-civetta che staziona nel teatro dell’omicidio. Sandro Capotosto, capitano dei CC in forza ai Servizi Segreti, morto a causa di un infarto nel 2010, accettò di incontrare chi scrive, in borghese, al «Crismi» Bar di via Ozanam, alla confluenza con via Francesco

Catel, in modo circospetto e, data la situazione, perfino comico. Era stato lui, in verità, a cercarmi in qualche modo al giornale quando seppe che andavo da tempo interessandomi al caso. Parlò per tutto il tempo senza guardarmi in faccia, poggiando le braccia sul bancone e guardando fisso davanti a sé. Rivelò, con voce fioca, dei reali movimenti di Cuzzupé e Guglielmi, pedine allora inconsapevoli di una strategia di più ampio respiro. Soggiunse che non avrei dovuto cercarlo mai più in futuro, che il nostro rapporto cominciava e finiva in quel bar. Uscì per primo a passo sostenuto dopo aver bevuto un bicchiere di acqua minerale gasata. Quando uscii, dopo pochi passi, fui fermato da due carabinieri in divisa i quali – in verità con molta cortesia e cercando di mettermi a mio agio – mi perquisirono adducendo ragioni di un controllo di routine.

L’ispezione corporale fu accurata. Ho sempre pensato che quel momentaneo fermo fosse direttamente ricollegabile all’incontro con Capotosto e lo scopo, a mio avviso, era duplice: sincerarmi che non fossi armato e che non possedessi un registratore. A pensarci bene non c’era una ragione valida per arrestare, a piedi, Pelosi. Si può fermare una persona, specie a quell’ora di notte, per il controllo dei documenti ma arrestarlo, perché? Il farlocco era la vittima sacrificale: doveva essere arrestato. Mastini lascerà l’auto di Pasolini al Tiburtino III, esattamente tra via Facchinelli e via Cervesato, zona Casal Bruciato. Coincidenza strana, la traversa successiva è via Diego Angeli dove i Mastini vivevano in una roulotte; il padre di Giuseppe gestiva una giostra nella vicina piazza Riccardo Balsamo Crivelli.

Tornando a quella notte di tregenda, l’estraneità di Pelosi all’azione fisica è deducibile, anche, dagli effetti custoditi nel Museo Criminologico in Roma: gli stivaletti di Pier Paolo sono letteralmente incrostati di fango, le scarpe di Pelosi sono semplicemente sporche, verosimilmente di uno sporco antecedente all’incontro. Inoltre, il famoso plantare presenta due peculiarità che avrebbe potuto/potrebbe ancora? aiutare e indirizzare gli inquirenti. La prima: sono presenti due tagli di forma rettangolare, effettuati verosimilmente con un cutter dato che il taglio è preciso e attraversa più strati di pelle, uno sotto l’alluce (più precisamente dove l’alluce si innesta nella pianta), l’altro alla fine della pianta proprio all’inizio dell’incavo, segno che il portatore aveva, proprio in quei due punti, callosità resilienti e mai resecati.

L’altro riguarda un alone scuro, diverso dal colore uniforme della restante area, che interessa l’alluce, il melluce e parte del trillice segno che il portatore era solito poggiare il piede con la punta e non con il tallone oltre ad avere le dita ad artiglio o, come anche comunemente detto, a martello. In una società «liquida», una società che impallina un uomo delle istituzioni (leggi: Ignazio Marino) solo per mancanza di agreement da parte del Capo e dell’imprimatur ritirato da Bergoglio, come possiamo sperare che gli elementi di novità che, da più parti, vengono offerti all’indagine vengano presi in esame per risolvere un delitto così aberrante? Noi andiamo avanti.

Di Cicerone è comunemente nota l’allocuzione Mala tempora currunt ma non tutti sanno che, così detta, rimane un’espressione monca. Lo scrittore infatti proseguiva: sed peiora parantur.