Ci si aspetta un trio sul palco della Sala Petrassi dell’Auditorium e invece appare un quartetto. Nessuno presenta il quarto uomo, programmi di sala non ce n’è. Uno dei tanti segnali della sciatteria che domina sovrana, eppure qui siamo nella più importante istituzione musicale di Roma. In ogni caso il quarto uomo si chiama Hugh Jones ed è l’assistente in scena del grande interprete di elettronica live Matthew Herbert. Inglese, Herbert ha costituito un trio con Enrico Rava e col pianista Giovanni Guidi per effettuare un tour in Italia e in Gran Bretagna, tour che culminerà con la registrazione di un album negli studi della Ecm a Monaco.

Un trio delle meraviglie, diciamolo subito. «Non ci sono leader», spiega Rava, che nella sua lunga carriera non ha mai suonato con l’elettronica così in primo piano. E sottolinea la continua variabilità delle singole performances del gruppo, con solo qualche breve schema di riferimento. L’improvvisazione al potere, insomma. Come in molto jazz libero e in rare musiche non-jazz di punta. Che questo sia jazz o non-jazz poco importa. O meglio: importa notare che non si spiegherebbe senza il sapere jazz il tipo di musica che esce dalla tromba, anzi dal flicorno, di Rava e dal pianoforte di Guidi. Però la «cattura» con le sue macchine (e con la collaborazione del fido Jones) delle note dei suoi due partner italiani da parte di Herbert e la successiva rielaborazione, non una semplice campionatura ma una messa in circolo in altra forma, è qualcosa che non appartiene soltanto al jazz. Conta il risultato. Splendido. Una lunga successione di linee melodiche, di polifonie, mai di banali unisoni, tutto di qualità timbrica preziosa e assai singolare, con l’elettronica che avvolge, sostiene, stimola nuove dimensioni ritmiche, suggerisce la massima libertà fuori dalle osservanze tonali. Appartiene a Herbert la concezione generale del lavoro? È un’ipotesi che si può fare. Come le altre due: che appartiene a Rava e che appartiene a Guidi. Per Rava e Guidi c’è semplicemente una situazione diversa da altre sperimentate e una ricettività mirabile del «punto di vista elettronico». Ma ricettivo al massimo grado è a sua volta Herbert in ogni minuto dei sessanta circa di durata del set. Per lui si tratta di ascoltare un «punto di vista jazz», ma un «punto di vista» di jazz molto avant senza essere legato né alla tradizione free né alla tradizione bop o cool, e poi di trasformare il materiale acustico in materiale sintetico.

Non c’è molto di dolce in questa musica (casomai non mancano i passaggi eterei) ma c’è molto di lirico. Però c’è anche molto di tumultuoso, per esempio certe sequenze a due Rava-Guidi che accresciute da rimbombi e ondate dell’elettronica danno luogo a memorabili episodi di «caos non calmo». Il giovane pianista è finalmente tornato a godere dei piaceri dell’informale e dell’aspro e dissonante. Sono chances sonore importanti, speriamo che non le trascuri. Discorso speciale su Rava. Seconda giovinezza? Non sappiamo. Ma sappiamo che la forza e la limpidezza dell’emissione sono da favola, sappiamo che l’avventurosa trepidante disposizione alla ricerca di freschissime intense frasi e sonorità ce lo fanno amare come mai prima.