Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà.. Il canto degli anarchici ci risuona immediatamente nella mente se appena ci mettiamo a parlare di confini. Dei quali, dunque sembra naturale diffidare. Non solo perché tanta retorica militarista ne ha fatto scempio, rendendoli odiosi , ma anche e soprattutto perché oggi sono sinonimo di una patria che si chiude e si barrica: il Canale di Sicilia, tanto per parlare di Mediterraneo, è ormai un enorme cimitero dove giacciono le vittime delle frontiere , i morti ammazzati dall’ossessione securitaria che ispira molte scelte politiche. Siccome non si può assicurare un’accoglienza dignitosa a tutti, meglio impedire loro di entrare. Anche e soprattutto se si pensa in prospettive non solo italiane o europee, ciò che sembra più probabile per il nostro futuro globale, come pianeta, è una lotta tra chi sta fuori e chi sta dentro, una lotta in cui volenti o nolenti, anche quelli fra noi che si sentono più aperti e moralmente impegnati a rispettare il prossimo e a coltivare ideali di umanità, si troveranno costretti ad arruolarsi.
Ma chi vorrebbe vivere davvero in un mondo senza confini? Dello sconfinato come tale, del resto, ci hanno insegnato a diffidare gli antichi; al punto che anche Dio doveva essere per loro qualcuno di «finito», compiuto e de-finito, pena il non essere affatto. Il mondo diventa umano quando vi si inscrivono differenze, segni che dividono ma anche danno senso allo spazio facendone un luogo o un insieme di luoghi. La sociologia recente parla, sempre criticamente, di non-luoghi: così l’aeroporto dove , secondo un film di qualche anno fa, si trova a vivere un apolide a cui è vietato entrare nel paese, è angosciante anche perché è un non-luogo, sebbene rappresenti il colmo della segregazione. E del resto coloro che le nostre polizie vogliono tener lontani dalla nostre frontiere non desideranosemplicemente abolire i confini, vogliono entrare in un luogo precisamente delimitato, proprio per le caratteristiche che esso specificamente possiede: cibo, tranquillità interna, forse persino un lavoro e la possibilità di progettarsi un avvenire..
Possiamo legittimare filosoficamente i confini? Potete cibarvi dei frutti di tutti gli alberi del giardino dell’Eden tranne che di uno, dice il Creatore ai progenitori, E l’antropologia teorizza il tabù dell’incesto – un divieto non motivato biologicamente, ma che funziona proprio solo come una prima linea di separazione. Il mondo diventa umano, lasciandosi alle spalle la foresta primitiva, quando è marcato da segni, che sono sempre anche principi di inclusione ed esclusione. È una specie di peccato originale della civiltà, come se fosse impossibile dare forma al mondo senza stabilire delle gerarchie. Del resto non conosciamo alcuna forma di divisione del lavoro sociale che sia unicamente ispirata a ragioni funzionali, che cioè non implikchi sempre anche la diferenza tra chi comanda e chi ubbidisce.
Solo l’estetica ci può salvare. Provate a pensare: se foste assessore alla cultura di un comune multietnico che cosa fareste per favorire la pacifica convivenza tra le diverse comunità del vostro territorio? Per esempio un festival delle cucine tipiche di ciascuna; una mostra di prodotti artigianali tipici; un serie di conferenze su usi, costumi, credenze degli uni e degli altri.
Davvero funzionerebbe? Forse sì e forse no. Finché rimangono le differenze (di base), quelle tra ricchezza e povertà, la «mitigazione estetica» ha possibilità limitate. L’esempio di una politica estetica multiculturale ha però un suo senso: dei confini non possiamo liberarci del tutto, come del peccato originale. Possiamo però oltrepassarli continuamente con l’ironia, con il farli servire alla qualitàdella vita come antidoto alla noia e alla routine.