Mancano tre settimane alle elezioni americane e tre mesi all’insediamento del prossimo Presidente. Il Nobel per la Pace Barack Obama vuole lasciare la scena esibendo la testa del Califfato: gli “abilitatori” statunitensi incalzano peshmerga curdi ed esercito iracheno Mosul, tentando di contenere milizie filo-iraniane e militari turchi. La fretta potrà rivelarsi cattiva consigliera, portando a usare la mano pesante con l’artiglieria, circostanza che non aiuta a riconquistare la fiducia della popolazione. Ma le elezioni USA hanno implicazioni più profonde per l’intera regione mediorientale: è infatti impensabile che nella fase pre- e post-elettorale la Casa Bianca si impegni in un mutamento di rotta in politica estera. Stante l’arretramento dell’ISIS in Iraq, a passare al prossimo Presidente sono soprattutto le guerre di Siria – dove si gioca la partita più complessa per l’egemonia internazionale.

Il passaggio domestico statunitense si riflette infatti sul terreno siriano: mentre la diplomazia è in stallo, Hillary Clinton annuncia nei dibattiti televisivi armi ai curdi per marciare su Raqqa e i principali attori regionali sanno di disporre di una finestra di opportunità di qualche settimana. Ne è consapevole la Russia, che ha inasprito i toni, miscelando spregiudicatezza diplomatica, propaganda e assertività militare: per quanto Trump si sforzi di sostenere Mosca come alleato anti-ISIS, Putin ha girato alla larga dal Califfato concentrandosi invece su Aleppo con massicci bombardamenti ‘anti-terroristi’ (centinaia morti civili in un mese di cessate il fuoco). Lo scopo è spezzare il fronte jihadista in città tenendo allineate le forze di Assad e quelle iraniane – della cui capacità di tenuta Mosca si fida poco – imprimendo incisività lungo sette fronti di terra.

Quest’azione è stata preparata da un riallineamento (dire alleanza sarebbe dire troppo) con la Turchia di Erdogan, pronta a sacrificare quei ribelli di Aleppo che finora erano strenuamente sostenuti contro Assad. In cambio Erdogan ha ottenuto l’assenso russo all’annessione di fatto dei territori siriani a ridosso della frontiera, dove ha convogliato le forze jihadiste più fedeli, scortandole a soppiantare l’ISIS e arginare l’avanzata dei curdi del Rojava. La Russia ha abbandonato i curdi, lasciando cadere la richiesta di una loro sedia al tavolo del negoziato, ben prima che gli Usa – agendo su intimazione turca – invertissero anche loro la marcia adoperandosi per contenerne il protagonismo a Ovest dell’Eufrate, proprio dove li avevano sospinti senza risparmio di bombardamenti. Seguendo le direttive russe, ora il regime di Damasco lascia che sia il nemico turco ad arrivare per primo alla strategica cittadina di Al-Bab, fermando l’unificazione dei cantoni curdi. Forte di questo posizionamento, Erdogan alza la voce internazionalmente, mentre sul piano domestico proroga lo stato d’emergenza fino all’insediamento del prossimo presidente americano.

La finestra apertasi con il voto americano concede il vento in poppa alle forze lealiste di Damasco, sparigliando le carte: l’Egitto si è spinto a votare la risoluzione Onu con cui la Russia ha affondato le richieste francesi di uno stop alle bombe, circostanza che ha fatto infuriare i sauditi, grandi sovventori del regime di Al-Sisi. Per tutta risposta i media del Golfo hanno messo in chiaro che occorre alzare il prezzo di ogni centimetro di terreno in Siria. A Riad si torna a parlare di forniture armi anti-aeree portatili destinate ai ribelli, senza che si chiarisca la posizione statunitense – finora contraria. Assumendo che tali armi possano penetrare dentro Aleppo Est, difficilmente sarebbero efficaci contro aerei russi che bombardano da alta quota. Al tempo stesso nessuno può prevedere passaggi di mano in un caleidoscopio di milizie in cui il cliente di oggi è il qaedista di domani. In questo contesto la Clinton sembra avere buon gioco nel corteggiare i repubblicani sull’idea – domani, da Presidente – di un ingaggio Usa sulla protezione aerea di Aleppo città, nonostante i rischi di collisione diretta con la Russia: un cessate il fuoco negoziato è lontano, mentre oggi si avvicina un’ipotesi di resa di componenti jihadiste, evacuazione armi in mano e ‘assistenza umanitaria’ a seguire.

Infarcito di contraddizioni, provocazioni e incidenti, il boccone siriano verrà passato a chi già resse le fila della politica estera sotto il primo mandato Obama: Hillary Clinton. Il suo esordio al Dipartimento di Stato coincise con una linea scettica rispetto alle primavere arabe. Da questa linea si smarcò Obama, che si recò al Cairo a celebrare la “Storia in marcia”. Mentre la realpolitik clintoniana, che aveva voluto l’armamento dei ribelli siriani, affondava con la gestione catastrofica del “caso Bengasi” (uccisione dell’ambasciatore statunitense l’11 settembre 2012), l’Egitto cadeva sotto un golpe militare, e il jihadismo dilagava a macchia d’olio. La regione mediorientale che Obama oggi lascia, vede la superpotenza Usa, che ha reincorporato l’Iran nel gioco internazionale, sfidata ormai su più fronti. Ne sono la prova i problemi con Israele, Arabia Saudita, Egitto e Turchia. Ne è prova il deterioramento senza precedenti delle relazioni con Mosca, accusata persino di interferenze elettorali, tanto a Washington come in Europa.

Per quanto Obama sostenga che gli interventi militari della Russia provano difficoltà di leadership, è verosimile che la Presidente Clinton cercherà di riasserire la potenza americana, così da riallineare alleati andati in ordine sparso in cerca del proprio interesse nazionale, e scardinare le posizioni su cui la Russia riesce a fare perno nonostante i propri limiti economici e le sanzioni. A partire dalle tensioni lungo i propri confini orientali, il rischio è che l’Europa venga trascinata in una spirale dagli esiti imprevedibili. Francia e Regno Unito sono ai ferri corti con Mosca in Siria. In Iraq è difficile immaginare che la popolazione di Mosul possa restare in casa – come chiesto dai volantini piovuti dal cielo – per settimane e mesi. C’è da impegnarsi perché le dinamiche che si avvitano sulle elezioni statunitensi non mantengano tutta la guerra che promettono.