La ricerca di Pierre Dardot e Christian Laval si misura con la forza del neoliberalismo, cercando di individuare le condizioni di un’opposizione praticabile e realistica. Essi rifiutano la via dello Stato nazionale – quindi la rappresentanza e il sistema dei partiti – sapendo che non permette di acquisire un potere sovrano capace di opporsi al capitale transnazionale e alle decisioni delle istituzioni finanziarie. La strada che battono è quella di una democrazia in grado di sostenere un’azione politica su scala mondiale e rispettare la pluralità delle forze che si oppongono al neoliberalismo.

Nella transizione che stiamo vivendo la democrazia si presenta come crisi, come un sistema che inibisce ulteriori processi di democratizzazione impedendo a nuovi soggetti di prendervi parte e limitando gli ambiti d’azione di chi vi è incluso. Essa è perciò lontana tanto dal populismo quanto dal fascismo, che necessitano di qualche forma di mobilitazione. La crisi non riguarda il sistema politico, che funziona proprio per impedire che essa deflagri. Il neoliberalismo produce una nuova forma di governo che si fonda sulla tensione costante a cui sottopone la società. Basandosi su processi di soggettivazione individuali, esso è costretto a limitare costantemente e con ogni mezzo lo sviluppo di quelli collettivi.

Affinché la democrazia sia uno spazio di azione politica, il problema di chi ne è il soggetto va posto dentro alla stessa democrazia per disinnescarne la logica universalistica. Per non ridurla a una strategia difensiva contro le oligarchie e i loro abusi bisogna determinare le posizioni soggettive capaci di «istituire» uno spazio di iniziativa politica autonomo, cioè di scegliere i punti di impatto con le altre forze che attraversano quello spazio. Dardot e Laval delineano puntualmente il campo di forze in cui il progetto democratico si pone, ma non nominano mai i suoi soggetti. I poveri, la cui presenza sarebbe decisiva sin dai tempi della democrazia greca, scompaiono dopo le prime pagine, ed è lecito chiedersi se la democrazia praticabile nello Stato globale non debba essere pensata al di fuori della sua stessa tradizione.

In maniera persino sorprendente Dardot e Laval scelgono di non attraversare le contraddizioni che il capitalismo produce, ma di muovere direttamente dalla composizione delle risposte politiche esistenti al potere delle oligarchie. Possono così scrivere che l’Europa può essere rifondata solo da una cittadinanza democratica transnazionale, ovvero dagli stessi cittadini europei. Non tutti gli individui che vivono in Europa, però, sono cittadini. Salvo mio errore, i migranti non sono mai nominati. Se dall’Europa si passa al piano globale, parlare di cittadini o degli appartenenti alla società rischia di reintrodurre l’universalismo che si voleva criticare denunciando la logica della rappresentanza.

La stessa proposta della coalizione antioligarchica corre questo rischio, perché ha come riferimento una condizione generalizzata e non le condizioni materiali di esistenza che determinano l’esplosione delle lotte. La coalizione non può essere l’opposto simmetrico dell’oligarchia, ma può solo assumersi il rischio politico di esprimere una logica di parte. Questa dovrebbe esprimere la pratica di un comune politico che non si limiti all’articolazione di beni pubblici e democrazia partecipativa. Se non vuole essere un ingranaggio dello Stato globale, la democrazia come governo deve essere all’altezza del processo paradossale che, mentre punta a istituzionalizzare il movimento che la produce, contribuisce a decostituzionalizzare lo Stato di cui pure fa parte.
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