Pochi giorni fa si è concluso il Golden Apricot Festival, il Festival dell’Albicocca dorata, nome suggestivo che indica l’appuntamento col cinema internazionale della città di Yerevan, Armenia. Sul sito del festival (www.gaiff.am)ci sono nomi dei premiati – il Concorso internazionale è stato vinto da The Tribe , film che subito dopo la prima proiezione, alla scorsa Semaine de la critique di Cannes, ha conquistato odi o amori incondizionati. E quelli dei registi invitati a tenere masterclass e incontri, come Otar Iosseliani e Jia Zhang-ke in una rassegna che, nel corso dei suoi undici anni, continua a espandersi oltre confine senza dimenticare la produzione nazionale – con la sezione Panorama armeno.
Presidente onorario del Festival è il regista Atom Egoyan, radici armene forti che attraversano molti dei suoi film nonostante lui viva in Canada. Alla direzione artistica c’è una donna, una critica armena, Susanna Harutyunyan, e a quella generale troviamo invece Harutyun Khachatryan (che del festival è fondatore). Forse in Italia il nome di questo cineasta dice poco, pure se negli anni passati è stato ospite di quell’avanzato laboratorio di ricerca che era il festival di Alba ideato da Luciano Barisone. E proprio nel cartellone di Visions du Réel, a Nyon, il festival svizzero dedicato al documentario di cui ora Barisone è direttore, abbiamo visto il nuovo film del regista armeno, oggi sessantenne,una filmografia lunga, che inizia quando aveva poco più che vent’anni, nell’81, con un cortometraggio (The Voices of the District), saggio di diploma alla Scuola di cinema in Armenia.
Endless Escape, Eternal Return
, Fuga senza fine, eterno ritorno, è il titolo che bene si adatta a questa trama scritta nel tempo, lungo il filo di decenni in cui le vite delle persone si intrecciano strettamente alla Storia, e anzi dai suoi passaggi epocali vengono sconvolte, mutate, dirette laddove (forse) non volevano giungere, o almeno mai si sarebbero aspettate di arrivare. Sono racconti di solitudini, di un qualcosa che rimane e sfugge ai mutamenti, un sentimento forte, profondo, immutabile nonostante intorno il mondo corra via come i giorni nel tempo.
Allora non avevo scritto di questo film, rivisto poi a distanza, sorprendente nel suo andamento non lineare – quasi un tappeto verrebbe da dire in modo fin troppo facile.
Gli anni sono quelli dell’Unione sovietica, di una censura delle idee e delle scelte individuali specie laddove più forte è la resistenza al potere dei governi. Che significa in quella situazione essere artisti, o più semplicemente vivere seguendo il proprio desiderio.
Khachatryan inizia a filmare nel 1988,concentrando il suo obiettivo su esperienze d’esilio, condizione che del resto appartiene agli armeni almeno dall’inizio del secolo scorso, quando il genocidio compiuto dai turchi li ha massacrati, e costretti a abbandonare case, città e terre. Khachatryan segue i vissuti di cinque artisti armeni i cui cambiamenti coincidono con quelli del paese: cosa è accaduto a loro, e cosa all’Armenia?
Il 1988 è l’anno del terremoto che devastò il paese, poco dopo collassa l’Unione sovietica, scoppia la guerra tra Armenia e Azerbaijan … Poi la vita sembra tornare a una sua normalità, i momenti difficili sembrano dimenticati, e così anche i protagonisti di Khachatryan. È la realtà a essere un’altra? O sono diverse le aspirazioni, le priorità, il necessario?
Due musicisti, che quando il regista inizia a lavorare al suo progetto erano molto conosciuti, Ruben e Plush, percorrono l’Unione sovietica per incontrare quegli armeni che vivono da soli lontani da tutto.Con loro discutono di cosa significa identità nazionale, e cosa casa o patria, conversazioni notturne, bevute, confidenze, sogni, rimpianti. I musicisti vanno da est a ovest, talvolta suonano, incontrano vecchi amici.
Hayk, è un regista di teatro che stava a Mosca e per tutta la vita ha cercato di mantenersi libero. «Sono evaporato nell’aria, non sono mai solo, vivo con la Storia»» dice. La sua esistenza è una battaglia che continua, come quella degli altri, fino a oggi. Intanto Khachatryan è diventato un regista conosciuto, i luoghi sono diversi, e così le persone. Qualcuno dei suoi protagonisti tornerà indietro? O come dice il titolo loro fuga è destinata a non avere fine?
La cosa interessante di questa ricerca è l’uso dell’archivio, che appartiene allo stesso cineasta, è lui che lo ha girato e dall’attualità di quando ha cominciato le riprese è divenuto memoria. O forse Storia, osservata da un punto di vista personalissimo (ma da quale altro si potrebbe?), e nel legame. o dicotomia, tra individuo e pensiero collettivo. L’archivio delle proprie immagini è però qualcosa su cui riflettere, una pratica che appartiene a diversi cineasti oggi, e che va al di là del semplice uso «descrittivo», rischio da eccesso di footage molto diffuso. Qui si interroga invece l’«innocenza» delle immagini, e la loro soggettività. Mi viene in mente un altro film, Dancing in the Dark lo hanno realizzato Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian (anche lui armeno). Forse quando filmavano le feste dell’Unità, nell’89, in Romagna, dove Angela è nata, non si aspettavano cosa sarebbe accaduto dopo. Ma certo quelle danze appaiono ai nostri occhi qualcos’altro, pensando alle pagine bianche dell’Unità giornale chiuso. Oblique e inattese ci pongono dei quesiti per ora destinati a non trovare risposta.