Black Mirror, prima serie. Scena finale del terzo episodio. Liam avanza spaesato nella sua vuota casa. È solo. Eppure, grazie al microchip impiantato nel collo, che ha registrato scene della passata vita familiare, rivede la moglie e la figlia, andate ormai via, in ognuna delle stanze in cui mette piede. Finché quegli incancellabili flashback non diventano una tortura e, con un colpo di rasoio, il dispositivo sottopelle non viene rabbiosamente estirpato. È fantascienza, distopia futuristica andata in onda nel 2011, nel Regno Unito. La fobia per un principio di robotizzazione, tuttavia, resta nell’aria, seppure resa meno angosciante dall’illusione di ipervisibilità che continua a lusingare. Tale capitalismo visivo richiede una risposta umanista. Erik Kessels, in anticipo sui tempi, ne offre intanto una versione pionieristica.

Nonostante sia il direttore dell’agenzia di comunicazione KesselsKramer, con sede a Amsterdam, Kessels odia la perfezione artefatta della pubblicità. La sua vena artistica, che nel 2012 gli è valsa il titolo di creativo più influente dei Paesi Bassi, si nutre piuttosto della collezione di immagini amatoriali, con cui gioca al gatto con il topo per riportare l’uomo al centro del cosmo, quand’anche 2.0.

Con il libro Album Beauty ha innalzato un’ode agli anonimi album di famiglia, celebrati come oggetto fisico e resi tangibili in una mostra dove diventavano tappeti visivi da calpestare. Camminando sopra ai ricordi, i visitatori potevano scendere nell’inconscio collettivo, scoprendo così che resistono archetipi universali.
A qualsiasi latitudine, una coppia tende a catalogare prima la propria vita da fidanzati, dopo il matrimonio, infine i figli: il culmine metafisico dell’esistenza. In alternativa, chi non avesse dei bambini può sempre fotografare cani e gatti. Oppure conigli, che naturalmente possono morire, come accade al termine di una galleria che l’artista ha costruito partendo dai social network. Un coniglio equilibrista è immortalato ogni giorno con uno scatto diverso in cui regge sulla sua testa libri, cibo, posacenere. All’improvviso non porta più nessun peso sul capo, forse perché sta diventando debole. All’indomani è morto. Ventiquattro ore dopo la sua tomba appare sommersa dalla neve, segnalata da una carota che emerge verso la calda luce invernale.

Kessels1

Extrema ratio, possiamo cercare conforto negli oggetti. Almeno, sono riparabili. Un’automobile, per esempio.
Il padre di Kessels amava restaurare le celebri Topolino della Fiat. Aveva già completato il recupero di quattro auto e stava lavorando al quinto quando, l’anno scorso, lo colse un ictus. Lui rimase senza parola e senza forza nelle mani, la Topolino, come un osso di seppia, restò abbandonata nel cortile di casa. Erik, per salvare la meccanica dei suoi affetti, ha avuto l’idea di trasportarla a Reggio Emilia, dove l’ha messa in mostra accanto alle foto realizzate dal padre per documentare le operazioni di restauro. L’esibizione, ospitata nella Sinagoga, è stata inaugurata il 22 maggio in occasione del festival «Fotografia Europea» e sarà visitabile fino al 26 luglio.

Unfinished Father racconta di un uomo che, simile alla sua Topolino, è destinato a restare incompiuto. La verità, dice l’artista, è che ogni cosa s’interrompe brutalmente, incurante dei nostri piani, per quanto accurati essi siano. Da qui è iniziato l’intervista.

Il tema della memoria perduta è onnipresente nella sua opera. Perché?

Quando avevo undici anni ho perso mia sorella, che ne aveva nove. La memoria si è allora bloccata per la prima volta. Le poche foto di lei che la mia famiglia conservava sono diventate sempre più importanti, essendo i suoi unici ricordi. Io non voglio forzare nelle persone emozioni facili, non mi piace ricattarle emotivamente. Il mio lavoro è terapeutico, è la mia strada per convivere con il dolore. Questo sì, desidero mostrare al pubblico che le storie non sempre finiscono bene, rispettando un copione appropriato. Voglio che la gente pensi alla fragilità della vita.

Lei quando ha iniziato a farlo, con maggiore consapevolezza?

Superati i trent’anni, mia sorella restava ben presente nella mia mente, ancora bambina. Ovviamente non avevo a disposizione immagini in movimento catturate da me e, di conseguenza, ho iniziato a scandagliare le pellicole Super 8 girate da mio padre. In cinque ore di materiale, ho trovato solo due minuti di filmato in cui mia sorella e io giocavamo a ping-pong. Da questi, ho ricavato un video di tre minuti, ripetendo e rallentando alcune sequenze. Ho cercato di estendere il tempo, inseguendo lo stretching di attimi che non potranno più ripetersi, anche se in realtà sembrano non essere mai svaniti. Per questo ho inserito sottotitoli che recitano: «io sono ancora qui con mia sorella a giocare a ping-pong». La musica, realizzata appositamente per questo filmato, è di Ryūichi Sakamoto.

Il cortile che si vede nel video è lo stesso dove suo padre riaggiustava le Topolino non più funzionanti. È come se, partendo da quel luogo concreto, lei avesse voluto riappropriarsi dei ricordi più intimi, per dar loro un significato nuovo.

Il video, è ovvio, non era stato pensato da mio padre affinché io potessi in futuro rielaborarlo. È in fondo la stessa operazione che ho portato avanti con la Fiat 500. Le foto esposte sono nate come appunti presi da papà per aiutarsi. Non avevano nessun valore artistico, si trattava semplicemente di useful photography che schematizzasse i progressi nel ripristino della funzionalità dei meccanismi dell’auto. Io le ho usate con altro scopo.

Suo padre era un buon artigiano?

Kessels3

Lo era, tuttavia anche per lui la passione sfumava nell’auto-terapia. Lo penso, nonostante non ne abbiamo mai parlato, perché io stesso dopo la morte di mia sorella ho iniziato a dipingere a dismisura e a collezionare con maniacalità. Mentre trovavo una via per uscire dal dolore, diventavo compulsivo. Le donne sanno parlare con maggiore facilità della propria sofferenza, gli uomini preferiscono focalizzarsi su un’azione unica e la ripetono senza moderazione, riversando la frustrazione emotiva sull’atto pratico. Credo che artigianato, nel caso di mio padre, e arte, nel mio, sottintendano una propensione autistica: replicare un gesto identico in maniera ossessiva alla ricerca della perfezione, finché il risultato non viene come lo si pretendeva.

«Oggi siamo bombardati da una tale quantità d’immagini, che la memoria è ricoperta da strati di frantumi di immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo», scriveva Italo Calvino in «Lezioni americane». Anche lei avverte questo pericolo?

Se potessimo tornare indietro di una ventina d’anni, troveremmo più calma nelle nostre teste. Oggi invece dobbiamo stare molto attenti a orientarci tra mail, video e immagini su internet. Stiamo diventando gli editor di noi stessi. C’è troppa confusione intorno e, di conseguenza, dobbiamo curare le nostre vite per stabilire cosa vogliamo vedere e cosa no, cosa vogliamo essere e cosa no. È così che creiamo il nostro percorso. Del resto io non credo alla crisi del mezzo secolo, ma a quella dei venticinque anni. Ci arriviamo troppo nutriti di informazioni e, per questo, andiamo in tilt. Sì, è necessario imparare a selezionare le immagini.

Ritiene che il mondo sia peggiorato rispetto a vent’anni fa?

Inutile pensarci, dal momento che non abbiamo nessuna possibilità di tornare indietro. A me piace la nuova realtà perché posso lavorare giocando di più con le immagini. Su Flickr, ho per esempio recuperato una serie di selfie scattati ai propri piedi dagli utenti, con i quali ho costruito una storia. Mi sono divertito anche accostando tutte le foto scattate da un fotografo poco esperto a un cane nero, dalla pessima idea iniziale di usare come sfondo un divano scuro, all’esilarante sovraesposizione finale, in cui finalmente riesce a catturare il profilo dell’animale, seppur pagando dazio con un effetto di dubbio gusto. Tutto quello che troviamo su Google è cibo per gli artisti.

È chiara la direzione che stiamo prendendo, per cui non possiamo fare altro che educare la nostra sensibilità. Un buon trucco è quello di riposizionare le immagini in un contesto nuovo. Bisogna giocarci.

Le foto sono quindi diventate meno sacrali rispetto al passato?

Più che altro è cambiato il loro significato. Prima una fotografia era un ricordo da custodire, oggi diventa un momento da condividere. La foto stampata per uso privato, quella destinata a essere raccolta negli album, aveva sicuramente un ciclo della vita più lungo, tant’è vero che veniva conservata anche se macchiata o con errori di scatto, come il classico dito sull’obiettivo.

È però curioso che da qualche anno si siano diffuse tante applicazioni vintage, volte a soddisfare un diffuso interesse per conferire una patina retrò alle foto sullo smartphone. Potremmo quindi dire che un ritorno verso il passato c’è, ma si tratta semplicemente di una questione estetica.