«È una strage di Stato, l’Akp ha le mani sporche di sangue», accusano la sinistra kurda e i pacifisti turchi.

Sì. E in tutta evidenza a «saltare» con la ferocia della strage di Ankara, a gettare la maschera, è la doppiezza del premier Erdogan, il Sultano atlantico, verso la guerra regionale in corso. Con questa strage la guerra ai civili e ai pacifisti entra, non più solo con la disperazione dei profughi siriani, all’interno del grande Paese mediorientale, non arabo e baluardo del fronte sud della Nato. Non sappiamo chi rivendicherà il massacro che ha visto la manovalanza di due kamikaze e diffidiamo della versione ufficiale.

Quel che appare evidente è la mano di un terrorismo ben orchestrato e dall’alto, che del resto ha già colpito, nello stesso modo e sempre la sinistra kurda e i pacifisti, nel luglio scorso a Suruç. Ora probabilmente Erdogan coglierà l’occasione per ergersi a difensore della inesistente legalità turca, magari con la dichiarazione di uno stato d’emergenza che ha da tempo nel cassetto.

Comunque tenterà di irretire il processo democratico che vede la scadenza elettorale straordinaria quanto decisiva del 1 novembre prossimo, tra soli 20 giorni. È il disastro annunciato del suo potere e di quello del partito islamista moderato Akp che alle ultime elezioni non ha avuto la maggioranza parlamentare per governare proprio grazie al 13% di consensi ottenuto per la prima volta dalla formazione dei kurdi e della sinistra turca, il Partito democratico del popolo (Hdp) della quale è leader Selahettin Demirtas, da quel momento in poi sotto accusa e sotto tiro. E non è bastato nemmeno che Demirtas entrasse nel governo elettorale ad interim.

Erdogan, per risposta e con la scusa di colpire l’Isis, ha isolato e fiaccato la resistenza militare dei combattenti della sinistra kurda del Rojava in Siria e ha scatenato l’offensiva contro il Pkk in Turchia (le due formazioni che, quasi uniche, hanno combattuto armi alla mano il Califfato), forte anche dell’appoggio Usa e dell’avallo del vertice Nato di Bruxelles di questa estate. La strage di Ankara illumina nel suo bagliore criminale l’ambiguità del ruolo turco nelle guerre mediorientali.

A partire dal doppiogioco strategico in Siria, ora disvelato e isolato dall’entrata in campo della Russia, che ha sparigliato le carte scoprendo il volto nascosto del Sultano atlantico.

Cinque anni fa, sconfitto nel tentativo di entrare in Europa, Erdogan ha ripiegato nell’area per costruire una nuova «pax ottomana», dalla Bosnia a Gaza, dall’Azerbaijan alla nuova Libia post-Gheddafi, tutto in funzione anti-Iran.

Poi, per accreditarsi con l’Occidente, è entrato nella coalizione degli «Amici della Siria» e ha giocato la carta della «guerra ottomana» in sostegno alle milizie in guerra contro Assad. Addestrando e sostenendo tutte le formazioni ribelli siriane – compresa Al Nusra, vale a dire Al Qaeda – nelle sue basi, a partire da quella Nato di Adana, come sanno tutti i governi occidentali e come hanno denunciato proprio i pacifisti turchi.

Ha sempre avuto una spina nel fianco però: il popolo kurdo. Perché le guerre americane ed europee, devastando tre paesi centrali dell’area nordafricana e mediorientale (in Iraq, Libia e Siria) hanno attivato sia il protagonismo jihadista, prima alleato dell’Occidente contro i regimi in carica e ora diventato nemico; ma hanno anche chiamato in causa il popolo kurdo, che resta diviso proprio tra Siria, Turchia e Iraq.

Fermare con la repressione, le armi e le provocazioni il contagio indipendentista e laico della sinistra kurda (il Pkk ma anche la coalizione politico-sociale del Rojava in Siria) è stato ed è l’obiettivo storico dell’islamista atlantico Erdogan.

«Cose turche» accadono, per la Nato che applaude ogni volta che un F16 turco decolla, e per l’Italia atlantica che si prepara a una nuova avventura militare in Libia, dove rischiamo di fare «un’altra Libia».