La narrazione occidentale dell’ultimo attacco israeliano su Gaza, iniziato l’8 luglio, è costituita da due elementi: in primo luogo c’è l’appoggio incondizionato al presupposto israeliano, secondo il quale è ragionevole e legittimo attaccare Hamas a Gaza, come reazione al lancio di granate dirette a colpire le città israeliane.

In secondo luogo, si è considerata tragica la violenza che provoca vittime innocenti e civili da entrambe le parti. Anche in questo caso si è dato per scontato che tale responsabilità sia di Hamas. Il New York Times in un editoriale, è riuscito a sintetizzare entrambi gli aspetti: «Non era concepibile che il primo ministro Netanyahu tollerasse i bombardamenti di Hamas. Né lo deve accettare.

Come ha dichiarato Obama, nessuna nazione deve subire bombardamenti nei propri confini, né tunnel di terroristi all’interno del proprio territorio». Il contraltare di questo quadro, è rappresentato dagli ultimi giorni di morte e distruzione, affrontati dalla popolazione di Gaza. L’enfasi delle Nazioni unite è relegata al tentativo di sminuire il prezzo della morte dei civili innocenti, pagato ogni giorno. Il Segretario delle Nazioni unite, Ban Ki-moon non riesce a fare di meglio che «sollecitare Israele a fare quanto possibile per fermare le morti dei civili». John Kerry, segretario di Stato americano, ha aggiunto la sua vana richiesta agli israeliani di essere «precisi» negli attacchi militari.

La presentazione di quanto sta avvenendo nella Striscia, distorce completamente la natura dell’interazione fra il governo israeliano ed Hamas nei confronti di Gaza. Più di ogni altra cosa, risulta totalmente soppressa la narrazione palestinese, che interpreta questi eventi in modo totalmente opposto rispetto a quanto viene «messo in scena» dai media occidentali e dai leader politici pro Israele.

Questa «sceneggiatura» ha un punto di partenza: il lancio dei razzi da Gaza su Israele. La narrazione palestinese – invece – insiste sull’importanza dell’assalto israeliano contro Hamas nel West Bank, deciso da Netanyahu in coincidenza con il rapimento dei tre ragazzi degli insediamenti israeliani, il 12 giugno scorso.

Da quel momento, è scattata l’accusa immediata contro Hamas per il crimine, senza mai aver trovato o presentato – neanche in questi giorni – uno straccio di prova che potesse giustificare le accuse, risultate, in seguito, «provocatorie». E nessuno sforzo è stato fatto per prendere in considerazione la posizione di Hamas, che ha sempre negato il proprio coinvolgimento nel crimine.

A questo proposito, Max Blumenthal (giornalista americano ndt) ha scritto che Israele ha nascosto l’informazione relativa all’assassinio dei ragazzi rapiti. Pare che i leader israeliani fossero già a conoscenza della morte dei ragazzi, alcune ore dopo gli eventi. Il rapimento, però, serviva per giustificare la disperata ricerca dei ragazzi in tutto il West Bank. Una «ricerca» che ha ottenuto come risultato la morte di sei palestinesi, la detenzione di altri 500 (soprattutto persone sospettate di legami con Hamas), il blocco totale di città e villaggi, le demolizioni di case abitate da «sospettati», incursioni notturne e molte altre forme di abuso dei diritti umani.

E all’interno del contesto di questi terribili crimini commessi, non viene mai ricordata la continua disputa per l’occupazione illegale, la presenza degli insediamenti e degli insediati nei territori occupati; si tratta di elementi che provocano risentimento e rabbia, alimentati dalle quotidiane umiliazioni subite dai palestinesi. È troppo aspettarsi che Hamas, o qualsiasi altra formazione politica, possa ignorare tali provocazioni senza reagire in alcun modo? E quale altro modo rimane ad Hamas, come reazione, se non inviare i propri rozzi e primitivi razzi in direzione di Israele?

La risposta è senza alcun dubbio contraria alle norme di diritto internazionale, ma quali alternative erano a disposizione di Hamas se non una supina acquiescenza? Israele – del resto – ancor prima dell’intensificarsi dei razzi lanciati da Gaza, ha cominciato a bombardare, con una strategia mirata a indurre una provocazione che potesse fornire a Tel Aviv la giustificazione per sferrare una massiccia operazione militare. Attacchi indicati da Israele con la spregevole metafora di «falciare l’erba», a rappresentare le indiscriminate incursioni punitive a Gaza.

Altrettanto rilevante, benché mai menzionato nella ipocrita narrazione delle scusanti che circonda l’interpretazione della violenza attuale, è l’illegalità del blocco di Gaza, stabilito a metà del 2007.

Questo «particolare», viene considerato da esperti di diritto internazionale come una forma di punizione collettiva nei confronti di tutti gli 1.8 milioni di palestinesi. Si tratta di una violazione dell’Articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra, in base alla quale la popolazione civile palestinese dovrebbe essere protetta da Israele, in quanto potenza occupante. È questa una delle più flagranti violazioni da parte di Israele delle norme di diritto umanitario.

Si sarebbe dovuto tener conto, inoltre, del fatto che sino ad oggi non una singola morte in Israele è stata causata dal fuoco dei razzi di Hamas (il primo decesso, dei due avvenuti, è stato causato dall’esplosione di un mortaio che ha colpito un civile che stava portando cibo ai soldati israeliani, mentre la seconda vittima sarebbe un soldato colpito da «fuoco amico» durante la prima fase dell’assalto di terra da parte israeliana), viceversa il numero dei palestinesi uccisi è salito a oltre 600 e stando ai resoconti delle Nazioni unite, il 75-80 per cento di questi sono civili. Di certo, nonostante la disparità dei morti, non è questa una scusa per avallare l’utilizzo indiscriminato di razzi, con un potenziale raggio di azione sufficiente a raggiungere e colpire le principali città israeliane.

Ma questa disparità delle due parti deve essere presa in considerazione e riconosciuta, quando i diplomatici dissertano pietosamente sulla sofferenza dei civili di entrambe le parti. Un po’ di contesto storico è appropriato. Israele, in passato, ha accompagnato queste massicce operazioni militari, con una narrazione autoreferenziale costruita sulla base di provocazioni.

Nel 2008 venne stabilita una tregua; Israele sferrò poi un attacco a quelli che stabilì fossero militanti di Hamas nei pressi di un tunnel, uccidendone sei e violando la tregua. Come risposta Hamas lanciò razzi a salve contro Israele. Nella crisi odierna, la linea di demarcazione è stata effettivamente violata da Israele, con una intensità tale da ignorare la tregua precedentemente stabilita, cui è seguito, immediato, l’attacco di terra.

Israele ha completamente monopolizzato il dibattito pubblico in Occidente, limitando la discussione al proprio diritto a difendersi dagli attacchi dei razzi. (…) Da un excursus sulle operazioni militari precedenti, emerge un modello sistematico che dovrebbe creare sgomento in osservatori obiettivi che tengono a cuore pace e giustizia: ad un periodo di quiete, segue una provocazione israeliana, poi una reazione di Hamas, seguita da una massiccia offensiva israeliana, seguita a propria volta da espressioni di preoccupazione a livello internazionale. Appelli inizialmente ignorati, che invocano una tregua ed infine un cessate il fuoco.

E in ognuna di queste occasioni, le proclamate dichiarazioni di Israele di voler dare fine alla capacità militare di Hamas di lanciare razzi, non si sono mai realizzate, sollevando il dubbio che i veri obiettivi prefissati da Tel Aviv siano in realtà stati ottenuti, ma mai resi pubblici. (…) Gaza oggi sta subendo violenze che non hanno pari per morti e distruzione. Nonostante questo, Hamas viene accusato di atti di «terrorismo». Viceversa il terrorismo di Stato di Israele viene descritto come legittimo e ragionevole. In tale contesto, poco riconosciuto, ogni categoria legale e morale risulta inadeguata per descrivere quanto sta avvenendo.

Molti si chiedono perché Hamas continui a lanciare razzi contro Israele. Esiste una risposta razionale convincente nell’annotare che la resistenza ad una occupazione straniera costituisce un impulso politico fondamentale. Hamas, come sembra, ha acquisito una tecnologia di razzi più sofisticata e in futuro potrebbe minacciare davvero Israele. Nel caso di Gaza – invece – la vulnerabilità è evidente, ogni giorno; eppure si continua a mostrare l’appoggio a Israele per la guerra e reiterare il pio invito a limitare le sofferenze della popolazione civile.

*Richard Falk, professore emerito all’Università di Princeton, è ex rapporteur su Gaza per le Nazioni unite. L’articolo è concesso al manifesto e Al Jazeera.